17 gennaio 2016 - II Domenica del Tempo Ordinario: Cristo vino e sposo

News del 16/01/2016 Torna all'elenco delle news

Nell'anno liturgico che stiamo vivendo, la conclusione del tempo natalizio aggancia l'inizio del tempo ordinario e ci invita a comprendere che il mistero di Dio che si è incarnato si realizza nello scorrere della storia per darle un senso nuovo. Oggi la Liturgia ci invita a rivivere l'evento delle nozze di Cana, momento culminante, dopo l'incontro dei Magi con Gesù e la teofania del Battesimo, della manifestazione del Figlio di Dio nella carne dell'uomo.

L'evento di Cana è la conclusione del prologo narrativo del Vangelo (Giov.1,19-2,12) e l'inizio della parte successiva che arriva ancora a Cana (Giov.2,1-4,54): da Cana a Cana, dall'inizio dei segni al secondo, che ne riprende e approfondisce il significato, mostrando che in realtà, il segno delle nozze non è tanto il primo di una lunga serie ma piuttosto l' "archetipo" di tutti i segni, quello nel quale tutti gli altri sono già contenuti.

"Questo archetipo dei segni fece Gesù, in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria, e credettero in lui i suoi discepoli". Con questa frase densissima Giovanni riassume il significato dell'evento che ha descritto.

Gesù ha fatto l' "archetipo dei segni". Giovanni inizia il suo Vangelo con una settimana che riprende e fa nuova la prima settimana della Genesi: adesso tutto è nuovo. A Cana Gesù compie un gesto che è l'inizio della comprensione nuova della realtà. Dal momento che la Parola si è fatta carne, la carne è una Parola che va interpretata: la prima creazione adesso è piena di Dio, ha un senso e una densità inesauribile. Vedere, toccare, gustare...: tutto è estremamente concreto e tutto ne dilata infinitamente il senso: il segno di Cana è la nuova chiave interpretativa della realtà.

"Manifestò la sua gloria": la gloria è la manifestazione di Dio. A Cana Gesù ha rivelato il volto che Dio vuole mostrare di sé: Dio è Colui che si accosta all'uomo, per fargli dono di se stesso e per mostrargli che tutto è segno del suo amore.

"E i suoi discepoli credettero in lui". La fede, per Giovanni, consiste nel "rimanere" in Gesù, vivendo con lui e come lui la dimensione filiale: consiste nel vivere con lui la vita di Dio nella carne e sperimentare che la carne è piena di Dio, nel veder Dio in tutte le cose.

A Cana è cominciata l'umanità nuova fatta da coloro che credendo in Gesù, sono diventati i suoi discepoli, che sperimentano la presenza amorevole di Dio che afferra, compenetra, la loro vita a tal punto che tutto dell'uomo è pieno di Dio, perché "il terzo giorno ci furono le nozze, in Cana di Galilea": a Cana è cominciata la vita nuova, una festa di gioia, perché il mondo è pieno dell'amore di Dio.

Tutto è così normalmente umano, in questo racconto, e tutto è così simbolico, perché tutto è segno dell'incontro d'amore tra Dio e l'umanità: si tratta dell' "inizio" della comprensione nuova della realtà, così profonda che rimane inesauribile, tanto che ciascuno di noi, leggendo e credendo può sperimentare e rinnovare in modo personale l'evento di Cana.

"Il terzo giorno...": nello scorrere dei giorni della settimana, uno dopo l'altro, Giovanni nota "il terzo giorno" che evidentemente anticipa quello della risurrezione, quello della vita che vince la morte, della luce che vince la tenebra. "Il terzo giorno" può essere anche per noi, qualsiasi giorno della settimana.

"C'erano le nozze". Sono ben singolari queste nozze, nelle quali sono presenti tanti personaggi, ma lo sposo rimane sconosciuto e "assente", con una fidanzata che ancora di più brilla per la sua assenza. In realtà tutta l'umanità celebra le nozze: tutta l'esistenza diventa una festa di nozze di cui noi siamo gli sposi chiamati a gustare la bellezza dell'amore quando ci apriamo all'esperienza che qui ci è offerta.

"C'era la madre di Gesù". Nel IV Vangelo solo due volte, a Cana e ai piedi della croce (19,25) appare "la madre di Gesù", alla quale egli si rivolge chiamandola "donna": non compare mai il suo nome "Maria". L'evangelista la caratterizza per la sua relazione materna con Gesù, mentre egli non la chiama mai con il termine che qualifica la sua relazione biologica con lei. Evidentemente il Vangelo ci sta introducendo in una esperienza nella quale la vita è nuova e le relazioni hanno un senso nuovo: la donna è nuova perché l'uomo sia nuovo.

"E fu chiamato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli": l'umanità che vuole gustare la gioia delle nozze, è avvertita che anche lui, con i suoi discepoli, sono chiamati a farne parte.

La madre di Gesù è la sola che si accorge della mancanza del vino e si rivolge solo a lui: "non hanno più vino".Come è possibile fare la festa se non hanno vino? Tutto questo è simbolico della condizione dell'umanità, che sperimenta la propria impotenza di fronte a Dio che si aspetta dal suo popolo la fedeltà di cui è incapace.

Gesù parla a sua madre chiamandola "donna" e ponendole la domanda "che c'è tra me e te?", provocandola a stabilire con lui una relazione nuova, nella quale si rinnova la figura femminile: è la donna credente, la nuova Eva, che anticipa a Cana, ciò che avverrà definitivamente sotto la Croce. La donna che nella Croce vede e sperimenta che Dio è un infinito, misterioso scambio di amore, diventa la madre di una umanità ormai avvolta dall'amore di Dio La donna credente è la madre dell'uomo nuovo che ascolta la Parola di Dio e vive di essa.

"Fate quello che vi dirà". Così ella si rivolge ai servi comunicando loro la sua totale fiducia in Gesù. Ascoltare la Parola di Gesù, il figlio della fede di Maria, significa ormai ascoltare la Parola di Dio che si è accostato all'umanità, non per dare una legge, ma per riempire la sua fragilità condividendola totalmente.

"E disse Gesù: Riempite le sei anfore...": qui, tutto è simbolico. Tutto è sovrabbondante, eppure non è ancora la pienezza: manca la settima anfora che sarà riempita sotto la Croce, quando Gesù svuotandosi totalmente di sé, accoglierà la pienezza di Dio alla quale tutti potranno attingere.

"Attingete e portatene a chi dirige il banchetto". Chi ascolta Gesù, chi con lui è ormai pieno della vita del Padre, gusta in modo nuovo l'umanità: dalle anfore piene di acqua chi crede in Gesù attinge il vino migliore. L'umanità povera, fragile nella quale Dio si è incarnato ormai è piena di grazia, di bellezza.

E si crea un contrasto tra due gruppi di persone: i servi, che conoscono perché hanno ascoltato la Parola di Gesù, e colui che dirigeva il banchetto. Ritorna, qui, l'ironia di Giovanni: forse in trasparenza egli parla della sua comunità: colui che per il suo ruolo dovrebbe sapere, in realtà non conosce, mentre solo coloro che servono possono comprendere le meraviglie di Dio.

Solo la fede fa entrare l'umanità nella festa a cui è chiamata: è una festa di nozze, è l'esperienza dell'intimità di Dio con la carne del mondo. La fede è l'accoglienza di Dio nella carne ed è l'esperienza della carne che risplende della gloria di Dio: è l'acqua che diventa vino. Questo avviene veramente, nella nostra vita, perché una donna ha creduto nell'amore di Dio, lo ha accolto nel suo grembo e lo ha generato: perché ogni donna credente possa generare l'uomo nuovo e l'umanità intera gusti la festa di nozze.

Omelia di mons. Gianfranco Poma

 

Nella festa di nozze il principe dei segni, il capostipite

L'intero Israele risuonava del lamento di schiavi e lebbrosi, e Gesù sembra ignorarli e inizia il suo ministero ma da una festa di nozze. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe di vino.

Sembra indifferenza davanti al dolore dei poveri, la scelta di qualcosa di secondario di fronte al dramma del mondo, eppure il vangelo chiama questo il "principe dei segni", il capostipite di tutti.

Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l'umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa.

A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell'amore umano. Lui crede nell'amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l'amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.

Gesù prende l'amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l'incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta.

A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).

Ma ecco che «viene a mancare il vino». Il vino, in tutta la Bibbia, è il simbolo dell'amore felice tra uomo e donna, tra uomo e Dio. Felice e sempre minacciato. Non hanno più vino, esperienza che tutti abbiamo fatto, quando stanchezza e ripetizione prendono il sopravvento. Quando ci assalgono mille dubbi, quando gli amori sono senza gioia, le case senza festa, la fede senza passione.

Ma c'è il punto di svolta del racconto. Maria, la donna attenta a ciò che accade nel suo spazio vitale, sapiente della sapienza del Magnificat (sa che Dio ha sazia gli affamati di vita) indica la strada: «Qualunque cosa vi dica, fatela».

Fate ciò che dice, fate il suo Vangelo, rendetelo gesto e corpo, sangue e carne. E si riempiranno le anfore vuote del cuore.

Fate il vangelo, e si trasformerà la vita, da vuota a piena, da spenta a felice. Più vangelo è uguale a più vita. Più Dio equivale a più io. Viene come un di più sorprendente, come vino immeritato e senza misura, un seme di luce. Ho tanta fiducia in Lui, perché non dei miei meriti tiene conto, ma solo del mio bisogno.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Cristo Vino e sposo

Il profeta Isaia annuncia la liberazione di Gerusalemme, che fra poco non sarà più una città derelitta e abbandonata a se stessa, ma diventerà una terra "sposata". Come un giovane sposa una ragazza così il Creatore sarà lo sposo della città gloriosa che si rivestirà di luce. Sono tutte promesse che non soltanto comunicano la novità ventura e il dono prossimo a realizzarsi, del quale sarà avvantaggiato il popolo d'Israele, ma che sottendono all'amore di Dio, la cui profondità e intensità è paragonabile a quella di uno sposo per la propria donna. Dio infatti ama il suo popolo anche da innamorato e fa dichiarazioni d'amore sono quelle che a lui rivolge senza esitazioni e senza riserve. Isaia è molto categorico su questo e non si smentisce nella sua ricorrente vena poetica con la quale si esprime per mezzo di paragoni, metafore e similitudini e adesso quella della sposa di Gerusalemme è l'espressione più allusiva all'amore che solo lui può elargire a piene mani.

Anche nella Nuova Alleanza la Chiesa, nuovo popolo d'Israele viene definita "sposa di Cristo", soprattutto in una similitudine di Paolo: "Mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la sua Chiesa e ha dato se stesso per lei."(Ef 5, 25) L'amore di Cristo è però innovativo della novità della salvezza definitiva, della novità del Regno che è in germe e che si attende nella sua pienezza. A Cana di Galilea, Maria viene quasi apostrofata da Gesù con una risposta perentoria e forse anche secca, a parere di alcuni commentatori: "Che c'è fra me e te o donna? Non è ancora giunta la mia ora". Maria le aveva chiesto un intervento perché in quel convito nuziale ci si era accorti che era venuto a mancare il vino ai commensali. Cosa inaudita e inverosimile! ..Gesù la definisce "donna", quasi con apparente distacco e ritrosia e precisa: "Non è ancora giunta la mia ora." Per alcuni esegeti (R. Penna) il termine "donna" riferito a Maria indica il popolo d'Israele che è stato visitato da Dio nel Messia. Quando Gesù si rivolge quindi a Maria con una simile espressione, egli vede in sua madre il popolo d'Israele che è giunto alla pienezza, perché il Messia è finalmente arrivato. Il tempo propizio è giunto perché Dio si è fatto uomo, il Verbo si è incarnato per la nostra salvezza e il Messia preannunciato dai profeti è ora in mezzo ai suoi. Ciò nondimeno ancora non è giunto il momento "propizio" nel quale egli manifesterà la sua salvezza definitiva, il tempo finale nel quale sarà resa manifesta la sua vera gloria per cui l'uomo sarà redento e tratto a nuova vita. L'"ora" di Gesù si verificherà al momento del suo arresto, quando per volontà del Padre subentrerà l'"ora" propizia nella quale le tenebre avranno ragione di lui perché venga consegnato alla croce e quella sarà la circostanza suprema della salvezza, perché la croce sarà il luogo del riscatto universale. In parole povere l'ora di Gesù è già venuta, certo, ma ancora non nella forma esaustiva e culminante. E' quello infatti il motivo fondamentale della gioia, la vittoria di Gesù sul potere delle tenebre, sulla morte e sul maligno, la quale avrà luogo solamente alla fine, quando per volontà del Padre egli starà sottomesso agli aguzzini e abbandonato da tutti. Maria allora viene individuata adesso come colei che dovrà vedere l'ora della salvezza al momento della passione e della croce di Gesù e solo in quell'occasione sarà veramente legittimo ogni suo miracolo. Gesù non è un fautore di sortilegi o di magie atte a soddisfare piccoli capricci o banali necessità materiali quali far comparire il vino a tavola per soddisfare gli assetati. Non è un miracolista banale e melense. Ogni suo intervento miracoloso piuttosto tende a testimoniare la misericordia del Padre ed è rivelativo della realtà del Regno che egli con la sua incarnazione è venuto ad apportare. Per meglio intenderci, con la guarigione fisica Gesù mostra che Dio ha potere sul dolore e la fede di ciascuno può guarire ogni sorta di malattia; con la guarigione dai lebbrosi mostra che Dio purifica e risana anche interiormente, con la resurrezione di Lazzaro che lui è la via, la verità e la vita e con la guarigione del cieco nato che egli è la luce del mondo...Come l'acqua è diventata vino, così in Cristo c'è il vino nuovo della gioia e della letizia che ha reso vani tutti i vecchi espedienti di purificazione.

La sua presenza adesso è preludio della gioia futura dell'ora (Kairos) propizia del passaggio dalla morte alla vita. Questa sarà l'"ora" delle tenebre, nella quale il maligno, che nel deserto fugge sconfitto e impotente di fronte alle risposte di Gesù in seguito alle tentazioni attuate nei suoi confronti, adesso ha il sopravvento su di lui: per volontà del Padre in quell'"ora " si realizzerà l'immolazione del Figlio, che sarà necessaria per la Resurrezione.

Il miracolo della trasformazione dell'acqua in vino è un invito ad intraprendere la scelta di Cristo nell'ottica della gioia propria di uno sposalizio ed è per ciò stesso un imperativo alla vita nella libertà e nella letizia, abbandonato ogni compromesso con il condizionamento e con la schiavitù. Al legalismo e alla sterile formalità non può non subentrare la personale partecipazione nella libertà e nella corresponsabilità ma è soprattutto necessario che questa sia contrassegnata dalla trasparenza della gioia che ci è data dalla sola appartenenza a Cristo.

Il tutto si spiega con la sola ragione dello sposalizio che Cristo ha realizzato egli stesso con la sua Chiesa, con la quale consuma un perenne banchetto di nozze nel quale il vino non verrà mai a mancare. Cristo per la Chiesa è il Vino, ma anche lo Sposo e in ambedue i casi in lui c'è sempre la gioia e la vita per tutti.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Liturgia e Liturgia della Parola della II Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 17 gennaio 2016