25 ottobre 2015 - XXX Domenica del Tempo Ordinario: desiderio, incontro, sequela, ecco l'itinerario della nostra vocazione

News del 24/10/2015 Torna all'elenco delle news

A Gerico avviene un incontro tra figli. Il figlio di Timeo incontra il figlio di Davide, che è anche figlio di Giuseppe. E il figlio di Giuseppe, venuto dal nord, dalla Galilea, restituisce a Bar-timeo (figlio di Timeo in ebraico) la dignità di figlio di Davide. Bartimeo, come Gesù, appartiene a un popolo, al popolo eletto. L'aveva scordato, mendicante di attenzioni e di pane, e ne era rimasto escluso: imprigionato dalle norme e dalla folla, dalle paure che diventano catene.

È anche incontro tra un figlio dell'uomo e il Figlio di Dio. E in questo incontro Gesù, che si è fatto Figlio dell'Uomo, dona a Bartimeo la consapevolezza di essere chiamato a divenire figlio di Dio anche lui. È una storia di fratellanza, dunque, smarrita e ritrovata. È una storia di vocazione: nell'incontro, Gesù restituisce a Bartimeo la bellezza di scoprire se stesso e di decidere di vivere da protagonista la propria vita con Lui.

Sembrano delinearsi tre tappe di un itinerario vocazionale: il desiderio, l'incontro, la sequela.

Bartimeo, al passaggio di Gesù, sente sgorgare da dentro un desiderio che era rimasto forse nascosto, seppellito, ammutolito dall'oscurità e dalla Legge da tanto tempo. È probabilmente e semplicemente il desiderio di vivere, di appartenere, di esistere ed essere riconosciuto da qualcuno. Esce in maniera scomposta, come capita spesso a noi, ai nostri giovani, a ogni persona. Esce come un grido esagitato, fuori luogo, che turba. La folla cerca di farlo ritornare al proprio posto, spento nel silenzio delle proprie viscere buie e abbandonate. Qualche volta rischiamo anche noi, inesperti pedagoghi, di tacciare il grido del desiderio, perché lo percepiamo esagerato, scomposto, inadeguato, fuori dalle righe. Urge, invece, aiutarci e aiutare a far tornare a galla, nel tram-tram quotidiano, il trepidante bisogno di alterità, di trascendenza, che significa relazione autentica. Il figlio dell'uomo non può vivere solo, né tanto meno escluso. Ha bisogno dell'altro, e quindi di Dio. Per questo cerca un altro Figlio a cui rivolgersi! E grida...

Gesù si ferma. Avviene l'incontro, la chiamata. Anche la chiamata passa attraverso la folla, la stessa folla irritata e spaventata dalla difficile gestione del desiderio. È la Chiesa, povera, affannata, ammassata attorno al Maestro, di cui poco capisce, ma che qualche volta sa accompagnare nella sua appassionata tenerezza per l'ultimo. Avviene l'incontro, tra il Figlio di Davide e il figlio di Timeo, tra Gesù e ognuno di noi, che ci riconosciamo figli della nostra storia, fragile e irripetibile allo stesso tempo. L'incontro toglie dall'anonimato definitivamente. Siamo preziosi agli occhi di Gesù: la nostra voce, pur sconclusionata e stonata nel coro del mondo, è cara al Figlio di Dio. È Lui che, cercato, ci cerca. È Lui che, desiderato, ci attrae a sé. E Bartimeo butta via le sue difese e le sue resistenze antiche, quel mantello che gli concedeva di sentirsi a posto anche nella sua passività, perché decide di lasciarsi incontrare. Dall'incontro con Gesù scocca la scintilla della fede e dell'amore che salva.

E infine, terzo e necessario passo che nasce da questa relazione nuova, ecco la decisione di partire, di mettersi in cammino, di seguire le tracce del Figlio di Dio per vivere non soltanto da fratello, ma anche da amico. Gesù apre gli occhi oscurati dal peccato, che ha tante manifestazioni e conseguenze personali e sociali. Gesù ridona la vista sulla propria identità profonda. Gesù restituisce la consapevolezza che la luminosità dell'esistenza dipende più dalla nostra voglia di camminare che dai cliché applicati a noi dagli altri. Siamo liberi, perché Gesù ci rende liberi nella cura della nostra relazione con Lui. E libertà significa legame, ora imprescindibile, irrevocabile: la sequela realizza, passo dopo passo, quella brama di trascendenza che ha urlato nella povertà tutta la passione del figlio. E la folla? Rimane lì, silenziosa; siamo noi, la Chiesa, lasciati liberi di dare la nostra risposta.

Desiderio, incontro, sequela. Ecco l'itinerario della nostra vocazione, come della vocazione di Bartimeo. Che nel lasciarsi coinvolgere in questa spirale di liberazione, scopre la luce di sapersi Bar- Abbà: Figlio del Padre, come Gesù.

Omelia di don Luca Garbinetto


La fede di un incontro che si trasforma in amore e guarigione

La parola di Dio odierna ci presenta, nel testo di Vangelo di Marco, Gesù che opera il miracolo della guarigione di Bartimeo, figlio di Timeo, che era diventato cieco.

Il racconto della guarigione è davvero molto significativo e come è prassi in Marco, la descrizione è precisa e coinvolgente. Gesù, infatti, partendo da Gerico, lungo la strada incontra questa persona che grida forte, al punto tale che molti lo rimproverano perché tacesse, il quale prega con grande fiducia e speranza in Gesù con queste parole "Figlio di Davide, abbi pietà di me".

E' il primo accorato appello, la prima fondamentale preghiera che una persona disperata, non autosufficiente, rivolge a Gesù, dal momento che vive in una situazione di miseria e chiede l'elemosina per vivere.

Vediamo in Bartimeo tante persone che vivono, oggi, questa sua stessa esperienza di mancanza d vista e del necessario. E fa davvero tenerezza pensare a chi non ha possibilità di guardare il mondo con gli occhi fisici che il Signore ci ha donato e che sono la nostra finestra aperta sul mondo. Quel mondo non sempre che ci fa vedere cose buone, al punto tale che forse è meglio preferibile chiudere gli occhi, non vedere piuttosto che vedere tante storture che esistono in ogni luogo.

Il primo accorato appello a Gesù da parte di Baertimeo trova una immediata risposta da parte del Signore. In questo caso Gesù non fa attendere il richiedente, anzi si dirige verso di lui e gli chiede apertamente, in un dialogo a tu a tu: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Cosa poteva chiedere un cieco in quella condizione, se non il dono della vista? E, infatti, Bartimeo, si rivolge a Gesù con la piena fiducia in Lui e gli dice: Maestro ridonami la vista.

E' evidente che aveva perso la vista e che dal testo si evince che non è un cieco nato, ma divenuto tale.

Lui ha sperimentato la gioia di vedere, ha assaporato la bellezza del mondo con gli occhi che ogni persona possiede per realizzare la visione delle cose.

La perdita della vista lo ha messo in una condizione di disagio e disabilità tale, che l'unico modo per vivere è quello di mendicare.

Gesù di fronte a questo cieco, pieno di fiducia e speranza in lui opera il miracolo istantaneamente, al punto tale che Bartimeo subito vide di nuovo.

Il testo del vangelo si presta ad una interpretazione quanto mai adeguata al discorso della fede, espressa dalla vista e alla cecità spirituale, espressione di una fede venuta meno, per tante ragioni al mondo.

Ci fa capire la debolezza dell'uomo, privo della luce della fede e che pensa di poter risolvere tutti i suoi problemi con la scienza, la tecnica e con la ragione. Oggi, in particolare, nella illusione collettiva di poter vivere senza Dio, si pensa che la vita abbia senso e sia più vera, felice ed autentica escludendo Dio dalla propria esistenza.

Il Vangelo di oggi ci illumina, invece, sul cammino necessario che ognuno deve compiere per raggiungere questa sicurezza interiore che è l'incontro con Gesù Maestro, sia mediante la parola che Egli ci dona e sia mediante pane spezzato al quale ci accostiamo nel santissimo sacramento dell'altare.

La fede di un incontro che si trasforma in amore. E' molto triste sapere che tante persone prive di fede, non sanno comprendere che chi ha questa fede è davvero la persona più felice di questa terra. La fede che è luce e lampada nel cammino della vita terrena non può essere messa sotto terra, cioè essere accantonata, solo perché questa fede è esigente, chiede la risposta e la sequela del Maestro, fino alla prova estrema del calvario.

Il cieco guarito, non scappa via, non si dimentica di Gesù, dopo aver riavuto il bene più prezioso della vista, anzi lo segue e diventa suo discepolo. Si pone alla sua scuola, alla sua sequela perché il cammino vero che egli deve fare, è appena all'inizio.

Il Signore gli ha concesso il dono della guarigione, perché ha visto in lui una fede sincera, che non si esaurisce in quell'atto, ma si protrae per tutta la sua vita.

La fede gridata, proclamata con coraggio, come ha fatto il cieco, potrebbe dare fastidio a qualcuno, potrebbe indispettire chi questa fede la contrasta in tutti i modi.

I cristiani di oggi non devono aver paura di gridare al mondo la loro fede e lo devono fare senza scendere a compromessi o tentennamenti, come hanno fatto i martiri di ieri e di oggi. Lo devono fare e basta, perché la fede è il centro stesso dell'essere cristiani.

Ecco perché Marco, in questo racconto del miracolo della guarigione del cieco evidenza lo scambio di parole tra il disabile, Gesù e gli apostoli. Le azioni sono espresse con precisi comportamenti assunti dai personaggi sulla scena. Infatti, Gesù di fronte all'insistenza di quell'uomo, si fermò e disse: «Chiamatelo!». Gli apostolo lo "chiamarono", dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Nonostante non ci vedesse, gettato via il mantello, si alza e va incontro a Gesù.

Il cammino della fede, del reincontro con Gesù sta in questo preciso atto decisionale di ognuno: bisogna buttare via le false sicurezze umane, espresse in quel mantello del cieco; bisogna alzarsi, riprendere vigore e forza spirituale e poi correre spediti verso colui che può guarire il nostro cuore e la nostra mente, che è Gesù.

Il miracolo del cieco ci fa capire esattamente come comportarci con il Signore e quale risposta possiamo e dobbiamo attenderci da Lui, se in Lui confidiamo.

Gesù, infatti, ci viene presentato come il sommo ed eterno sacerdote, al quale rivolgerci per ottenere pace, misericordia e perdono, come leggiamo nel brano della Lettera agli Ebrei della seconda lettura di questa domenica: "Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l'ordine di Melchìsedek».

Gesù è l'eterno sacerdote che si offre continuamente per noi sull'altare della croce, per ridarci la libertà dei figli di Dio. La santa messa, memoria perpetua della passione, morte e risurrezione del Signore ci immerge in questo sacerdozio di Cristo e ce ne fa gustare tutti i soprannaturali benefici, al di là della nostra pochezza e debolezza, oltre i limiti delle nostre miopie e cecità spirituali.

E sul tema delle cecità ed infermità materiali e spirituali si basa la prima lettura di questa domenica, tratta dal profeta Geremia, nella quale traspare evidente la misericordia di Dio e la speciale cura che il Signore ha del suo popolo e di quanti al suo interno sperimentano la sofferenza, il dolore e la prova.

In una prospettiva estremamente positiva è vista la presenza di Dio nella storia del popolo eletto, dopo l'esperienza dell'esilio: "Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d'acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele".

Noi siamo i pellegrini della speranza. L'esilio, la lontananza da Dio, prodotta in noi dal peccato, deve trasformarsi in vicinanza a Dio ed ai fratelli nella misericordia e nell'accoglienza.

Sia questa la nostra preghiera, oggi, giorno del Signore: "O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell'oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa' che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te".

Noi siamo chiamati tutti a fare questo cammino di avvicinamento a Cristo, unico salvatore del mondo, per assaporare la gioia dell'incontro con Lui nei sacramenti del perdono e della comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Omelia di padre Antonio Rungi

 

Credere fa bene, Cristo guarisce tutta l'esistenza

Un ritratto tracciato con tre drammatiche pennellate: cieco, mendicante, solo. Un mendicante cieco: l'ultimo della fila, un naufrago della vita, un relitto inchiodato nel buio sul ciglio di una strada di Gerico. Poi improvvisamente tutto si mette in moto: passa Gesù e si riaccende il motore della vita, soffia un vento di futuro. Con il Signore c'è sempre un "dopo".

E Bartimèo comincia a gridare: Gesù, abbi pietà. Non c'è grido più evangelico, non preghiera più umana e bruciante: pietà dei miei occhi spenti, di questa vita perduta. Sentiti padre, sentiti madre, ridammi vita.

Ma la folla fa muro al suo grido: taci! Il grido di dolore è fuori luogo. Terribile pensare che davanti a Dio la sofferenza sia fuori luogo, che il dolore sia fuori programma.

Eppure per tanti di noi è così, da sempre, perché i poveri disturbano, ci mostrano la faccia oscura e dura della vita, quel luogo dove non vorremmo mai essere e dove temiamo di cadere.

Invece il cieco sente che un altro mondo è possibile, e che Gesù ne possiede la chiave. Infatti il rabbi ascolta e risponde, ascolta e rilancia.

E si libera tutta l'energia della vita. Notiamo come ogni gesto da qui in avanti sembra eccessivo, esagerato: Bartimèo non parla, grida; non si toglie il mantello, lo getta; non si alza da terra, ma balza in piedi.

La fede è questo: un eccesso, un'eccedenza, un di più illogico e bello. Qualcosa che moltiplica la vita: «Sono venuto perché abbiate il centuplo in questa vita». Credere fa bene. Cristo guarisce tutta l'esistenza.

Anzi il cieco comincia a guarire prima di tutto nella compassione di Gesù, nella voce che lo accarezza. Guarisce come uomo, prima che come cieco. Perché qualcuno si è accorto di lui. Qualcuno lo tocca, anche solo con la voce. Ed egli esce dal suo naufragio umano: l'ultimo comincia a riscoprirsi uno come gli altri, inizia a vivere perché chiamato con amore.

La guarigione di Bartimèo prende avvio quando «balza in piedi» e lascia ogni sostegno, per precipitarsi, senza vedere, verso quella voce che lo chiama: guidato, orientato solo dalla parola di Cristo, che ancora vibra nell'aria.

Anche noi cristiani ci orientiamo nella vita come il cieco di Gerico, senza vedere, solo sull'eco della Parola di Dio, che continua a seminare occhi nuovi, occhi di luce, sulla terra. 

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 25 ottobre 2015

tratto da www.lachiesa.it