23 agosto 2015 - XXI Domenica del Tempo Ordinario: Gesù, segno salvifico di contraddizione
News del 22/08/2015 Torna all'elenco delle news
C'era da aspettarselo: il discorso sul Pane di Vita fatto da Gesù segna un momento di crisi, un momento decisivo all'interno della sua vicenda storica. Del resto, seguirlo e accettare che lui sia veramente il Figlio di Dio, il Messia atteso, non è facile. Non è facile per noi dopo duemila anni di cristianesimo, figuriamoci quanto non lo fu per i suoi interlocutori che ascoltavano certi suoi discorsi dal vivo. È come se all'interno della Chiesa sorgesse qualche uomo carismatico (come ce ne sono stati, di fatto) che iniziasse a proporre cammini sempre più esigenti e che vanno controcorrente rispetto alla fede nella quale siamo stati educati: diverrebbe quantomeno un segno di contraddizione. E a questo epiteto, Gesù ci era abituato sin dai suoi primi mesi di vita, dal momento che Simeone al tempio lo presenta a sua madre proprio in questi termini: "Segno di contraddizione".
Qual è la contraddizione che Gesù crea nel Vangelo che abbiamo ascoltato durante questo mese, e che provoca l'abbandono da parte di molti dei suoi discepoli? Ricreiamo per un istante l'ambiente formatosi intorno a Gesù a Cafarnao. Tutto nasce dal miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, a conseguenza del quale le folle che cercavano in lui un guaritore trovano pure uno che risolve i problemi legati alla mancanza di cibo: la persona ideale per divenire il Messia leader politico da tutti atteso. Gesù rifiuta ovviamente questo tentativo di strumentalizzazione e fugge in solitudine: recuperato dai discepoli, si sposta nella sinagoga, dove può finalmente svolgere la sua funzione di maestro. Già qui, le folle sembrano essere scomparse: ovviamente, a loro interessava un leader che risolvesse i loro bisogni primari, una volta ottenuti i quali possono benissimo abbandonare il Maestro, che peraltro non ha molta voglia di diventare re...
Rimangono quindi i Giudei e i discepoli, con i quali inizia il dibattito che abbiamo ascoltato le scorse domeniche riguardo al Pane di Vita; e qui, si concretizza la rottura con i Giudei (le autorità religiose), ai quali non va proprio giù che questo sedicente rabbino di Galilea si autoproclami come il Dio dell'Esodo ("Io sono"), o quantomeno si senta più grande di Mosè e del suo Dio nel quale la tradizione dei loro padri aveva posto ogni speranza e ogni fiducia. Anche i Giudei scompaiono: e dai cinquemila dell'inizio del capitolo si passa al gruppetto più ristretto dei discepoli, con i quali le cose funzionano fino a un certo punto, fino a quando, cioè, egli afferma che seguirlo significa "mangiare la sua carne e bere il suo sangue" per avere la vita eterna. Siamo nella situazione descritta dal brano di vangelo di oggi: i suoi discepoli non possono accettare una parola così dura e talmente provocatoria da scandalizzare chiunque la ascolti. Ma Gesù non scende a compromessi: la linea è quella, o si sta con lui o contro di lui, o si accetta fino alle estreme conseguenze che lui è inviato dal Padre oppure si fa a meno di seguirlo, o si crede o non si crede. Punto. Anzi, rincara la dose dicendo di sapere già che tra i suoi uditori c'è chi non crede, e quindi è meglio che sia coerente e che se ne vada per la sua strada. Ed è ciò che avviene. Da cinquemila sono rimasti in tredici: lui e i suoi Dodici, i più fedeli, ai quali si rivolge senza fare sconti. Neppure con loro cerca di salvare il salvabile, anzi, sapendo bene che tra di loro ce n'è uno che lo avrebbe tradito, tanto vale anticipare i tempi e gettare la discriminante: "Volete andarvene anche voi?".
Credo che questo sia il punto più basso del rapporto tra Gesù e i suoi, che con ogni probabilità riflette la situazione storica della comunità del Vangelo di Giovanni, una comunità di fine secolo (che quindi difficilmente ha conosciuto di persona il Maestro) sulla quale si stanno riversando le prime, violente persecuzioni: e in situazioni come queste, si vede chiaramente chi crede e chi non crede. Occorre esporsi di persona, occorre una scelta di libertà: occorre, in definitiva, una risposta personale di fronte a Gesù. Che arriva con Simon Pietro, il quale rimane il solo interlocutore a prendere la parola e a dire la sua di fronte al Maestro: cinquemila sono stati quelli saziati da Gesù, uno solo quello che fa la propria professione di fede... (e poi noi ci lamentiamo che nelle nostre parrocchie la vita di fede numericamente viene meno...come vedete, niente di nuovo sotto il sole!).
Questa professione di fede di Pietro, tra l'altro, è molto particolare. Certamente, è una delle più belle e delle più famose affermazioni attribuite al Principe degli Apostoli, perché esprime affidamento al Maestro non solo nei momenti felici ma anche e soprattutto nei momenti di crisi, come quello che i Dodici stanno vivendo con Gesù, e come quelli che anche noi viviamo nel corso della nostra vita di fede. Eppure, c'è un'interpretazione di alcuni studiosi che mi pare suggestiva. Il capo degli Apostoli, lo sappiamo bene, veniva chiamato con il nome di Simone e con il soprannome di Pietro. E nei Vangeli, i due nomi non sono usati in maniera equipollente: il Signore si rivolge sempre a lui chiamandolo per nome, Simone, mentre sono gli evangelisti a chiamarlo Pietro, e ciò avviene quando egli fa "la pietra", ovvero quando assume atteggiamenti di durezza di cuore che lo portano ad essere in dissenso, in contraddizione con il Maestro, fino a giungere al rinnegamento.
Ma la professione di fede di oggi viene fatta da...Simon Pietro, ovvero, ironicamente, da entrambi: dal Simone fedele capo del gruppo dei Dodici, e dal Pietro contradditorio e incostante discepolo spesso avversario del Cristo. Così come - sempre a detta degli studiosi - è tipica dell'avversario di Cristo la professione di fede che esce oggi dalla sua bocca: chiama Gesù il Santo di Dio, che è la stessa definizione che danno di lui gli indemoniati quando lo incontrano, una definizione che nel linguaggio biblico indica il Messia difensore della tradizione inviato a rispettare e far rispettare la Legge di Mosè. Proprio ciò che Gesù liberatore rifiuta di essere... Quella che voleva essere una professione di fede diviene un'altra volta un'affermazione contraddittoria.
Sembra proprio che di fronte al Dio di Gesù Cristo non siamo capaci di credere come lui vuole, né di seguirlo secondo le sue vie. Chi ci salva da questa sventurata situazione, che riflette ciò che quotidianamente viviamo, ogni volta che vorremmo seguire Gesù e ci accorgiamo di essere distanti anni luce da lui? La chiave di tutto sta nelle primissime parole dell'affermazione di Simon Pietro, parole che aprono interrogativi irrisolti, ma che, in fondo, esprimono totale abbandono in colui che, solo, può darci salvezza: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna".
Omelia di don Alberto Brignoli
Oltre la carne, lo Spirito
I suoi discepoli mormoravano. Per ben 15 volte nell'antico testamento si racconta del popolo d'Israele che mormora. Questo verbo, mentre descrive l'atteggiamento dell'insoddisfazione umana, è un severo giudizio sull'uomo che non riconosce l'azione di Dio e ne diventa in qualche modo ostile. Non racconta semplicemente un malumore ma una sorta di ribellione dell'uomo che non accetta la fatica e il sacrificio ma vorrebbe vedere le promesse realizzarsi subito e "tenta" Dio per provocarne una reazione imponendo la propria volontà. La mormorazione è peccato contro Dio, manifesta l'incapacità dell'uomo di fidarsi e affidarsi a Lui.
Dal mormorare dei Giudei (Gv 6,41.43) siamo passati ai discepoli mormoranti che, in continuità con la storia d'Israele, persistono ad affermare le proprie convinzioni su Dio e la Salvezza non accogliendo l'opera di Dio in atto: Questa parola è dura! Un Messia che risolve i problemi dell'uomo sfamandolo è facile da accettare, ma non un Dio che chiede l'impegno dell'accoglienza nella debolezza della carne.
È un atteggiamento anche dell'uomo moderno la cui mormorazione dopo aver espresso un giudizio su Dio raggiunge l'indifferenza. Troppo egocentrico con una tecnologia potente è l'uomo di oggi capace di cercare Dio nelle difficoltà ed emergenze e non lo riconosce nella quotidianità; cerca Gesù partendo da se stesso, non dalla sua Parola, non lo trova dove lo sta cercando perché Gesù è "oltre".
Quello che stupisce nel vangelo è che si parli dei discepoli, non i cosiddetti lontani, ma i frequentanti; le persone più vicine possono essere, nei fatti, le più lontane. Non basta essere vicini fisicamente, non basta frequentare la Messa domenicale per lasciarsi comprenderne dalla Fede; Gesù stesso, che afferma di aver scelto i dodici, dice anche uno di voi è un diavolo (Gv 6,70).
È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla. I discepoli dopo aver ascoltato, mormoravano; non basta udire la Parola del Signore, occorrono orecchi capaci di essere in quell'"oltre" dove Gesù abita.
Se è vero che Gesù è la parola fatta carne (Gv 1,14) è anche vero che le parole che ci ha detto sono spirito e sono vita. Se la carne in cui la Parola si è calata è il paradigma della fragilità umana, quella stessa Parola, fatta comprensibile all'uomo fragile, non ha ceduto alla carne la sua forza perché appartiene allo Spirito (cfr. Gv 1,32). Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito (Gv 3,34).
Ogni sforzo umano per quanto eccelso, proprio perché appartiene alla carne, non arriva a nulla, anche gli impegni religiosi e devozionali finiscono per essere controproducenti quando giunge la stanchezza e ciò che volevamo non è stato raggiunto; allora scopriamo di aver chiacchierato da soli invece di aver cercato un dialogo col Signore, crediamo di essere a lui vicino perché assidui ai luoghi che pensavamo fossero i suoi, ma Lui è "oltre" le apparenze, le forme e gli atteggiamenti devoti; in fondo avevamo cercato solo la nostra realizzazione, la tranquillità, il riempimento dei nostri vuoti.
Signore, da chi andremo? Sull'altra riva del lago la folla che aveva seguito Gesù e che era stata sfamata contava circa cinquemila uomini (Gv 6,10), a Cafarnao la Parola del Signore allontana la folla, anche i discepoli si dileguano, rimangono solo i dodici, anche loro pieni di dubbi incapaci di leggere in profondità ciò che Gesù stava dicendo. Gesù non sembra che cerchi di spiegarsi meglio o di semplificare il messaggio, lascia che ciascuno faccia la sua strada dietro le proprie convinzioni, anche ai dodici domanda Volete andarvene anche voi? Davanti alla facilità del pane tutti si muovono per l'interesse, quando si chiede il coinvolgimento della vita si fa il vuoto; si possono riempire le chiese la domenica ma è nelle scelte quotidiane di carità, accoglienza, sacrificio, condivisione che si misura il discepolo di Cristo. La Parola del Signore non sazia come il pane, anzi espone all'ebrezza dello Spirito, al bisogno incontenibile di farsi dono, ci immette "oltre" la quotidianità della storia: Tu hai parole di vita eterna.
Omelia di don Luciano Cantini
La «dura» Parola che dà vita
Giovanni mette in scena il resoconto di una crisi drammatica. Dopo il lungo discorso sul pane dal cielo e la sua carne come cibo, Gesù vede profilarsi l'ombra del fallimento: molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui, dicendo: questa parola è dura. Chi può ascoltarla?
Il suo essere "disceso dal cielo", per farsi tutt'uno con noi, e diventare cibo che si assimila, nostro pane: un Dio da mangiare, da esserne vivi, di una vita non effimera ma eterna, tutto questo è difficile per i discepoli, e resta "duro" anche per noi oggi. Il mistero non va ridotto alla ragione o addomesticato, ma rispettato. Altrimenti si rischia di sterilizzare qualcosa che invece è vitale. Il cristianesimo è comprensibile solo se in esso c'è qualcosa di incomprensibile, un di più, che eccede la logica. Accostiamoci al Vangelo, alle parole "dure" di Gesù, con la nostra sensibilità tenuta viva, con stupore e turbamento, per non svuotarlo e impoverirlo, perché è energia che deve toccarci, non lasciarci tranquilli, cambiare qualcosa in noi che viviamo di ripetizioni e abitudini.
Ed ecco la svolta del racconto: Forse volete andarvene anche voi? In Gesù c'è consapevolezza della crisi, ma anche fierezza e sfida, e soprattutto un appello alla libertà: siete liberi, andate o restate, ma scegliete; e seguite quello che sentite dentro!
Gesù non ordina quello che devi fare, non impone quello che devi essere, ma ti porta a guardarti dentro: che cosa desideri davvero? Dove va il tuo cuore? Finita la religione delle pratiche esterne e degli obblighi, si apre quella del corpo a corpo con Dio, a tu per tu con la sua vita, fino a diventare una cosa sola con lui.
Sono chiamato anch'io a scegliere di nuovo. E ci aiuta la stupenda risposta di Pietro: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Tu solo: Dio solo. Un inizio bellissimo. Non ho altro di meglio. È davvero l'affare migliore della mia vita.
Hai parole: il cielo non è muto, Dio parla e la sua parola crea, ribalta la pietra del sepolcro, vince il gelo, apre strade e incontri, carezze e incendi. Parole di vita: che portano vita ad ogni parte di me. Danno vita al cuore, lo rendono spazioso, ne sciolgono la durezza. Danno vita alla mente, che vive di verità altrimenti si ammala, e di libertà o muore. Danno vita allo spirito: mantengono vivo un pezzetto di Dio dentro di noi, nutrono la nostra parte di cielo. Parole che danno vita anche al corpo, perché in Lui siamo, viviamo e respiriamo: togli il tuo respiro e siamo subito polvere. Parole di vita eterna, che creano cose che meritano di non morire, che regalano eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Liturgia e Liturgia della Parola della XXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 23 agosto 2015
tratto da www.lachiesa.it