16 agosto 2015 - XX Domenica del Tempo Ordinario: cibarsi di Cristo per avere la vita eterna

News del 15/08/2015 Torna all'elenco delle news

Il discorso che andiamo leggendo da alcune domeniche, il discorso pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, prosegue oggi con un brano (Giovanni 6,51-58) che insiste sul concetto-chiave: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno". Sarà opportuno, in proposito, ricordare che egli parlava a uomini di duemila anni fa, quando certe parole avevano un significato non proprio uguale a quello di oggi. E' il caso di "carne": invitando a cibarsi della sua carne, Gesù non intendeva invitare all'antropofagia, neppure in senso simbolico; il termine "carne" designava una persona vivente (per dire che il Figlio di Dio si è fatto uomo, lo stesso evangelista usa l'espressione "Il Verbo si fece carne"). Mangiare di lui significa stabilire un'intima connessione con lui, una comunione di vita, un'amicizia profonda nel senso che a questo rapporto tra gli uomini davano anche i pagani: idem velle idem nolle, dice Sallustio, cioè due sono amici quando vogliono le stesse cose e non vogliono le stesse cose.

All'amicizia con lui, Gesù ha dato la forma visibile e sensibile dell'Eucaristia: che è dunque l'espressione da parte sua dell'offerta-invito a condividere la sua vita, a fare nostri i suoi pensieri, i suoi sentimenti, la sua volontà, le sue prospettive per il futuro. Ecco perché nella celebrazione dell'Eucaristia, cioè nella Messa, la comunione è preceduta dal memoriale del suo sacrificio redentore e, prima ancora, dall'ascolto della sua Parola: per conoscere chi è, che cosa ha fatto e che cosa continua a dire Colui che si va ad accogliere sotto le specie del Pane, per vivere in pienezza la relazione con lui.

"Mangiare la carne" del Figlio di Dio comporta dunque anche non pretendere di essere più intelligenti di lui, di sapere meglio di lui come condurre la nostra vita; comporta il fare nostra la sua sapienza, che entrando nel mondo egli ha messo così largamente a nostra disposizione. Lo dice anche la prima lettura (Proverbi 9,1-6), con una plastica personificazione della Sapienza divina, immaginata costruirsi una casa tra gli uomini e invitarli a un generoso convito: "La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: ?Chi è inesperto venga qui!' A chi è privo di senno ella dice: ?Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l'inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza'".

Alla saggezza accenna anche la seconda lettura (Efesini 5,15-20): "Fate molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi". E a queste parole l'apostolo Paolo aggiunge un esempio, una delle possibili concrete applicazioni: "...da saggi, facendo buon uso del tempo". A proposito dell'uso del tempo: è proprio vero, pregi e difetti degli uomini non hanno età, nel senso sia che si riscontrano in ogni stagione della vita, sia che riguardano gli uomini d'oggi come quelli di duemila anni fa. Spesso non lo si percepisce, ma il tempo è un valore, e non banalmente per il detto popolare che il tempo è denaro. Il tempo è come un baule vuoto che ci è stato donato; dipende da noi che cosa metterci dentro: se nulla, se cose positive, se cose negative. Dando per scontata la seconda e la terza ipotesi, non sempre si considera la prima: a fronte delle tante belle cose che si possono fare, quanto tempo va perduto! Quante chiacchiere a vuoto, quante ore davanti alla tivù, quante letture frivole, quanti sbadigli! All'epoca di Paolo c'era evidentemente chi del tempo non faceva buon uso: il richiamo vale intatto anche duemila anni dopo. Almeno, per chi cerca la saggezza. 

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Cibarsi di Cristo per avere la vita eterna

Negli otto versetti di questo Vangelo Ge­sù per otto volte ri­pete: Chi mangia la mia car­ne vivrà in eterno. E ogni vol­ta ribadisce il perché di que­sto mangiare: per vivere, per­ché viviamo davvero. È l'in­calzante, martellante certez­za da parte di Gesù di posse­dere qualcosa che capovolge la direzione della vita: non più avviata verso la morte, ma chiamata a fiorire in Dio.

Chi mangia la mia carne e be­ve il mio sangue ha la vita e­terna.

Ha la vita eterna, non avrà. La «vita eterna» non è una specie di «trattamento di fine rapporto», di liquidazio­ne che accumulo con il mio lavoro e di cui potrò godere al­la fine dell'esistenza. La vita eterna è già cominciata: una vita diversa, profonda, giusta, che ha in sé la vita stessa di Gesù, buona, bella e beata.

Ma la vita eterna interessa? Domanda il salmo responso­riale: C'è qualcuno che desi­dera la vita? C'è qualcuno che vuole lunghi giorni felici, per gustarla? (Salmo 33,13). Sì, io voglio per me e per i miei una vita che sia vera e piena. Voglio lunghi giorni e che sia­no felici. Li voglio per me e per i miei. Siamo cercatori di vita, affamati di vita, non ras­segnati, non disertori: allora troveremo risposte. Le trove­remo nella vita di Gesù, nel­la sua carne e nel suo sangue, che non sono tanto il mate­riale fisiologico che compo­neva il suo corpo, ma inclu­dono la sua vita tutta intera, la sua vicenda umana, il suo respiro divino, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, i suoi abbracci, la casa che si riempie del pro­fumo di nardo e di amicizia. Su, fino alla carne inchioda­ta, fino al sangue versato. Fi­no al dono di sé, di tutto se stesso. Mangiare e bere Cristo significa essere in comunio­ne con il suo segreto vitale: l'amore. Cristo possiede il se­greto della vita che non muo­re. E vuole trasmetterlo.

«Chi mangia la mia carne di­mora in me e io in lui». È mol­to bello questo dimorare in­sieme. Gli uomini quando a­mano dicono: vieni a vivere nella mia casa, la mia casa è la tua casa. Dio lo dice a noi. E noi lo diciamo a Dio per­ché il nostro cuore è a casa solo accanto al suo.

Al momento della professio­ne il monaco armeno antico, invece che con i tre classici voti, si consacrava a Dio con queste parole: voglio essere u­no con Te! Una sola cosa con te. Che è il fine della vita. «U­no con te»! E lascio che il mio cuore assorba te, lascio che tu assorba il mio cuore, e che di due diventiamo finalmen­te una cosa sola. Il fine della storia: Dio si è fatto uomo per questo, perché l'uomo si fac­cia come Dio. Gesù Cristo en­tra in noi per produrre un cambiamento profondo, per una cristificazione: un pezzo di Dio in me perché io diven­ti un pezzo di Dio nel mon­do.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Dimmi con chi mangi

È vero: dell'Eucaristia come Pane di Vita e di tutta la profondità e la ricchezza che questo Mistero della nostra fede porta con sé non si smetterà mai di parlare abbastanza. Ma il tema di Gesù come Pane di Vita legato al capitolo 6 del Vangelo di Giovanni e tutti i rispettivi collegamenti all'Antico Testamento (in particolare all'esperienza dell'Esodo) ci sta accompagnando ormai da quattro domeniche, e lo farà - sia pur parzialmente - anche la prossima domenica. Il rischio, perciò, di essere ripetitivi e quindi di non offrire più spunti di riflessione interessanti per la nostra vita di fede risulta essere abbastanza elevato.

Questo è il motivo per cui, in questa domenica, ho deciso di concentrare la mia attenzione più sulla prima lettura, che pur avendo dei riferimenti eucaristici ineludibili, lo fa non attraverso un discorso come quello di Giovanni (che gli stessi discepoli, la prossima domenica, non esiteranno a definire "duro e di difficile comprensione"), ma attraverso un'efficace immagine biblica - quella del banchetto - che Gesù riprenderà in modo significativo e addirittura ne farà un "luogo teologico", ovvero un momento forte per far "passare" alcuni concetti legati alla sua persona e al suo essere Figlio di Dio.

Il libro dei Proverbi gioca buona parte del capitolo 9 sulla contrapposizione di due inviti a banchetto: quello di "Donna Sapienza" e quello di "Donna Stoltezza". La prima (protagonista della lettura di oggi) è attiva e costruttrice; la seconda, irrequieta e fannullona. Entrambe invitano "gli inesperti e i privi di senno". Ma chi va dalla prima e mangia il suo pane, acquista l'intelligenza, cioè quel buon senso e quella prudenza nell'agire che rende la vita un'esperienza gioiosa. Chi invece, disprezzando la prima, va diritto alle dolcezze furtive della seconda, finisce nell'ombra della morte.

Questa bellissima immagine non è altro che la sintesi di tutto un genere letterario del banchetto che percorre la Bibbia da cima a fondo, e che trova nella prassi di Gesù il suo culmine. Attraverso il banchetto, non si vuole solo compiere una funzione vitale come quella del mangiare o un rito che ricordi momenti belli del passato come nel caso del Banchetto Pasquale. Il banchetto biblico è sempre un "memoriale" (termine poi usato pure per l'Eucaristia), ovvero un rito che senz'altro fa memoria di qualcosa che è avvenuto nel passato, ma perché i suoi benefici (primo tra tutti, una più profonda conoscenza di Dio, la Sapienza appunto) continuino ad avere efficacia nella vita presente.

Dicevamo che Gesù porta al culmine questa pratica del banchetto, e non solo con il momento conclusivo della sua esistenza terrena, nel quale, attraverso il banchetto dell'Ultima Cena, ci lascia l'Eucaristia come "memoriale" della sua Morte e Resurrezione. Possiamo infatti dire che i messaggi più importanti e i gesti più significativi della sua missione, Gesù li compie nel contesto di un banchetto.

È ad un banchetto matrimoniale svoltosi a Cana di Galilea che Gesù, trasformando l'acqua in vino, dà inizio ai segni miracolosi che contraddistingueranno la sua missione; è ad un banchetto in casa di Levi il pubblicano, da poco chiamato al suo servizio, che rivela ai benpensanti d'Israele di essere venuto nel mondo a chiamare non i giusti, ma i peccatori, motivo per cui condivide spesso con loro il banchetto, appunto; ed è sempre nel contesto di un banchetto in casa di un fariseo che Gesù, ricevuto un gesto d'affetto da una donna di pessima reputazione, fa comprendere al puritano padrone di casa che solo chi ama di più è degno di sperimentare di più l'amore e il perdono di Dio;

è all'interno di diversi banchetti, spesso con gente non certo raccomandabile, che Gesù proclama le più belle parabole della misericordia, oltre a paragonare il Regno dei Cieli a un banchetto pensato inizialmente per i buoni e i giusti, i quali però rifiutano l'invito e ne vengono definitivamente esclusi a vantaggio dei poveri, degli emarginati e dei reietti;

è ad un banchetto in casa di un uomo di Betania guarito dalla lebbra che Gesù riceve l'unzione che prelude alla sua morte e affida alla sua Chiesa il compito di occuparsi con serietà dei poveri, invece di scandalizzarsi ipocritamente per l'uso eccessivo di un unguento di grande valore; ed anche dopo il Banchetto per eccellenza dell'Ultima Cena, portato a compimento sull'altare della croce, Gesù si presenta Risorto ai suoi e condivide con loro un po' di pane sulla strada di Emmaus e un po' di pesce arrostito in riva al lago di Galilea.

Non credo di esagerare, perciò, se giungo ad affermare che il banchetto nella predicazione e nella vita di Gesù è talmente importante che è proprio a causa del suo modo di mangiare che viene messo in croce. Ciò che infatti urta maggiormente la sensibilità dei Giudei del suo tempo e che non può certo rappresentare un'immagine di Dio coerente con quella del Dio degli Eserciti dell'Antico Testamento è proprio la condivisione che Gesù fa della sua stessa vita divina con i peccatori, gli emarginati e gli esclusi della società: condivisione che raggiunge il suo culmine proprio nel banchetto, dato il valore altamente simbolico che aveva, nella cultura d'Israele, il condividere il pane con una persona. Se banchettare con una persona significava (e credo continui a significarlo) sentirsi in amicizia e in comunione con lei, è chiaro che per i farisei puritani un Dio che entra in comunione con i peccatori è un Dio ridicolo, banale, blasfemo, e come tale va eliminato.

Ma è proprio la condivisione della vita di Cristo con gli esclusi, portata fino all'estremo di essere "crocifisso in mezzo a due malfattori", che spinge noi, suoi seguaci in questo tempo, a comprendere che il vero banchetto di condivisione con Cristo è il banchetto che si fa "una sola cosa" con tutti gli esclusi e gli emarginati della società, così come lui ha fatto.

Se quel Banchetto Eucaristico a cui partecipiamo con assiduità, magari ogni domenica, o magari addirittura quotidianamente, non è capace poi di sfociare in gesti concreti di solidarietà con chi soffre, con chi è escluso, con chi è emarginato e con chi rappresenta uno scandalo per la società a motivo del suo comportamento non certo ineccepibile, risulta perfettamente inutile partecipare all'Eucaristia. La nostra partecipazione sarebbe formale, rituale, e quindi, come quella dei farisei, profondamente falsa.

La continuità fra il Banchetto Eucaristico a cui partecipiamo e l'attenzione ai nostri fratelli più emarginati e bisognosi è fondamentale ed essenziale al compimento della legge della carità che a parole diciamo di conoscere molto bene, ma che nella vita di ogni giorno rischia di rimanere un mucchio di parole gettate al vento.

Banchetto Eucaristico sì, dunque: ma se sfocia poi, come quello di Cristo, in gesti di carità concreta, di accoglienza, di condivisione con i più poveri ed emarginati.

Omelia di don Alberto Brignoli

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 16 agosto 2015

tratto da www.lachiesa.it