19 luglio 2015 - XVI Domenica del Tempo Ordinario: imparare da Gesù il cuore di Dio
News del 17/07/2015 Torna all'elenco delle news
Nella domenica XVI del tempo ordinario leggiamo un piccolo brano, Mc.6,30-34, nel quale appare sempre più viva la preoccupazione pedagogica del Vangelo di accompagnare i discepoli nel loro cammino di fede come graduale apertura del cuore ad un Dio che continua a stupirli nel dono del suo Amore per loro.
I discepoli (che adesso Marco chiama "apostoli"), Gesù, e la folla, sono i tre soggetti, attorno ai quali si muove la scena: nella loro relazione reciproca, nel loro ascoltarsi vicendevole, avviene la loro "conversione". Certo è Gesù il perno attorno al quale tutto gira: ma anche in Lui niente è scontato, anche Lui sperimenta la sua "conversione" quando, per la sua vera partecipazione alla carne umana, vive dentro di sé i più profondi sentimenti di Dio.
È molto bello questo con-venire degli "apostoli" con Gesù, per raccontare a Lui "tutto ciò che avevano fatto e ciò che avevano insegnato". È Lui che li aveva scelti "perché stessero con Lui e per mandarli a predicare": è un loro bisogno intenso ritrovarsi con Lui e confrontarsi con Lui. Quante cose avevano fatto e insegnato! Il testo insiste sulla completezza del rapporto fatto a Gesù per quanto riguarda la loro attività ma nulla dice sull'effetto da loro ottenuto sulle persone incontrate.
È significativa la reazione di Gesù che non esprime nessun tipo di giudizio su tutto quanto loro narrano, ma piuttosto li invita a spostare l'attenzione su "loro stessi": "Venite, voi stessi, in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco". A Gesù interessa condurre i "Dodici" a scoprire in loro la vera dimensione dell'esistenza umana perché si rendano coscienti della profondità a cui è rivolta la missione che Lui affida a loro: è il cammino interiore verso la libertà ("venite in disparte...") per gustare la bellezza della vita (riposatevi). Una osservazione piuttosto ironica sottolinea quale "conversione" debbano ancora compiere i "Dodici", per non essere vittima di una specie di "alienazione apostolica": "Erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano neppure il tempo buono per mangiare!". Certo, "gli apostoli" potevano essere gratificati da questo convulso andare e venire attorno a loro, tanto da non avere neanche il tempo per mangiare: ma cosa significa non avere il tempo per sé e neppure per mangiare? Non mangiare conduce alla distruzione della persona, e soprattutto fa mancare quello che per Gesù significa mangiare insieme: la condivisione, la comunione fraterna.
"E partirono, sulla barca, verso un luogo solitario, in disparte": comincia il cammino opposto alla direzione di vita che li aveva riempiti ed entusiasmati. Gesù è con loro, nella barca, ma la sua presenza è silenziosa: li accompagna nel cammino che, in realtà, essi, con Lui, devono ancora compiere per comprendere che cosa significhi veramente "venire in disparte, in un luogo deserto e riposare..."
Adesso in primo piano sono "i molti", la folla, il mondo, che "videro", "capirono", "accorsero", "precedettero". È meravigliosa questa serie di verbi con cui Marco descrive il mondo nel suo magari confuso bisogno di Dio, nel suo vedere, comprendere e cercare il Cristo, nel suo precedere la barca (la Chiesa) in cui egli è presente con gli "apostoli". Gli "apostoli" non sono più nominati: riappariranno in seguito come "discepoli" (v.35). È solo Lui che "uscendo, vide una grande folla e ?provò compassione' per loro, perché erano come pecore senza pastore". Il verbo usato da Marco esprime una intensità ben più grande del nostro "provare compassione": è il verbo usato dai profeti per descrivere il perturbamento delle viscere di Dio che fremono per il suo popolo, è il turbamento che la madre prova nel partorire il proprio figlio, è l'amore materno di Dio che sente quanto il mondo abbia bisogno di essere continuamente rigenerato da Lui. Il mondo cerca Dio, non solo le cose di cui ha pure bisogno: Gesù non può stare nella barca con i suoi "apostoli", non può allontanarsi da un mondo che, magari senza saperlo, lo cerca. Anche Gesù è "convertito" dal mondo che cerca: la vocazione pastorale di Gesù nasce proprio in questo momento, quando vede il mondo disperso, affamato di Lui, della sua misericordia, quando sente le viscere muoversi dentro. E gli "apostoli" devono tornare "discepoli", per non essere professionisti di apostolato: liberandosi dal loro affannarsi, dall'autocompiacimento, essi per primi, devono sempre imparare a ritrovare se stessi, a cercare la solitudine, non in una barca che si allontana, ma ascoltando il grido del mondo che essi stessi si portano nel cuore e sentendo, come Gesù che le loro viscere sono il luogo in ui prende carne l'Amore infinito del Padre.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Il riposo, quel sano gesto di umiltà
C'era tanta gente che non avevano neanche il tempo di mangiare. Gesù mostra una tenerezza come di madre nei confronti dei suoi discepoli: Andiamo via, e riposatevi un po'. Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza, gli smarrimenti, la fatica dei suoi. Per lui prima di tutto viene la persona; non i risultati ottenuti ma l'armonia, la salute profonda del cuore. E quando, sceso dalla barca vede la grande folla il suo primo sguardo si posa, come sempre nel Vangelo, sulla povertà degli uomini e non sulle loro azioni o sul loro peccato. Più di ciò che fai a lui interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di andare a pregare, di preparare nuove missioni, solo di prendersi un po' di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È un gesto d'amore, di uno che vuole loro bene e li vuole felici. Scrive sant'Ambrogio: «Si vis omnia bene facere, aliquando ne feceris, se vuoi fare bene tutte le tue cose, ogni tanto smetti di farle», cioè riposati. Un sano atto di umiltà, nella consapevolezza che non siamo noi a salvare il mondo, che le nostre vite sono delicate e fragili, le energie limitate.
Gesù insegna una duplice strategia: fare le cose come se tutto dipendesse da noi, con impegno e dedizione; e poi farle come se tutto dipendesse da Dio, con leggerezza e fiducia. Fare tutto ciò che sta in te, e poi lasciar fare tutto a Dio. Un particolare: venite in disparte, con me. Stare con Gesù, per imparare da lui il cuore di Dio. Ritornare poi nella folla, portando con sé un santuario di bellezza che solo Dio può accendere. Ma qualcosa cambia i programmi: sceso dalla barca vide una grande folla ed ebbe compassione di loro. Prendiamo questa parola, bella come un miracolo, come filo conduttore: la compassione. Gesù cambia i suoi programmi, ma non quelli dei suoi amici. Rinuncia al suo riposo, non al loro. E ciò che offre alla gente è per prima cosa la compassione, il provare dolore per il dolore dell'altro; il moto del cuore che muove la mano a fare.
Stai con Gesù, lo guardi agire, e lui ti offre il primo insegnamento: «come guardare», prima ancora di come parlare; uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, le parole e i gesti seguiranno. Quando impari il sentimento divino della compassione, il mondo si innesta nella tua anima. Se ancora c'è chi si commuove per l'ultimo uomo, questo uomo avrà un futuro.
Gesù sa che non è il dolore che annulla in noi la speranza, non è il morire, ma l'essere senza conforto. Facciamo in modo di non privare il mondo della nostra compassione, consapevoli che «ciò che possiamo fare è solo una goccia nell'oceano, ma è questa goccia che può dare significato a tutta la nostra vita» (Teresa di Calcutta).
Omelia di padre Ermes Ronchi
Un tempo per riposare e incontrare
È l'unica volta che nel vangelo di Marco è usata l'espressione apostoli (inviati) per indicare i dodici, richiama quanto raccontato all'inizio del capitolo quando chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due (Mc 6,7). La parola Apostolo non ha ancora il significato tecnico, il ruolo e la funzione che assumerà nella chiesa nascente; qui semplicemente indica la dimensione subalterna a Colui che li ha inviati, racconta una esperienza derivata, non una missione propria. Dunque, i discepoli, in continuità con il mandato ricevuto raccontano tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Nel racconto il verbo fare precede l'insegnamento, questo per sgombrare il campo da qualsiasi teorizzazione della Fede che invece si esprime nella concretezza della vita. È l'unica volta in Marco che il verbo insegnare è applicato a qualcuno che non sia Gesù; questo ci autorizza ad affermare che il Signore Gesù è il vero Maestro; gli altri, compresi noi, non siamo altro che portavoce di un insegnamento. In noi la sua Parola risuona e riverbera, trova il modo di ricomprendere il tempo e la storia che stiamo vivendo, cerca espressioni capaci di essere comprese dal linguaggi e culture nuove, ma Lui e soltanto Lui è il Maestro, Lui è la Parola vivente: Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore ( Eb 4,12).
In un luogo deserto
L'immagine che Marco trasmette è quella del nuovo popolo di Dio e del nuovo Esodo: il riferimento al deserto racconta dell'intimità di Dio con il suo popolo, quando Dio parla al cuore di Israele (cfr. Os 2,16) perché diventi suo popolo (cfr. Es 19,3-6). Nel deserto il popolo riceve da Dio la manna come cibo e l'acqua per dissetarsi: Marco sta per raccontare (v 35-44) dei cinquemila uomini sfamati con cinque pani e due pesci.
L'invito di Gesù a venire in disparte per riposare ci racconta della terra promessa (cfr. Gs 1,13-15; Is 63,14; Dt 11,8-12) dove scorre latte e miele (cfr. Es 3,8; Dt 6,3; Gs 5,6). A questa terra di riposo Dio conduce il suo popolo: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l'anima mia (Sal 22).
Questo invito di Gesù è rivolto oggi anche a noi, un invito a trovare più tempo per riposare, per dedicare alla famiglia, agli amici, a se stessi, al nostro rapporto con Dio. È invito a prendere le distanze dalla frenesia delle giornate, dalle preoccupazioni, dalle paure, dal lavoro, dalle responsabilità; abbiamo bisogno di un altro punto di vista per guardare la nostra vita da fuori, insieme con il Signore. Tutto quello che abbiamo fatto e insegnato, la nostra stessa vita perde di significato che non riusciamo a traguardarla con gli occhi del Signore.
Ebbe compassione
L'episodio raccontato con poche parole sembra contrastare con i rifiuti dei nazareni, e gli insuccessi registrati: mentre Gesù e i suoi attraversano con la barca il lago in cerca di un luogo appartato, una folla numerosa, corre lungo la riva fino a precedere il piccolo gruppo. C'è una fame e una sete percepita chiaramente ma non del tutto identificata. Si potrebbe facilmente identificare questa fame e questa sete con gli aspetti sociali e religiosi di quel popolo in quell'epoca: un forte controllo sociale ed una struttura religiosa potente. Se l'evangelista arriva a dire che erano come pecore che non hanno pastore, l'idea che ci vuole comunicare è quella di un popolo allo sbando. Ma dell'oggi cosa potremmo dire? Non abbiamo l'impressione che ci sia ancora oggi una fame e una sete percepita chiaramente ma non del tutto identificata? Nell'epoca post moderna che stiamo vivendo in cui l'egocentrismo e l'egoismo, condizionano le nostre relazioni; in un mondo multimediale in cui comunicare sembra facilissimo col risultato di maggiore isolamento; in una società dominata dal mercato e dalla economia, dove la persona diventa un numero e si dilegua, le fami e le seti sono molte. Stiamo in un periodo di grande confusione ciò che dovrebbe essere normale diventa eccezionale: un politico onesto, marito e moglie che dopo tanti anni di matrimonio vivono insieme felici, un impresa che crea posti di lavoro...
Gesù ebbe compassione di loro, così come ha compassione di noi oggi: è la dimensione materna del Signore che accoglie, la sua tenerezza nei confronti dei miseri, la sua profonda misericordia.
Come non rileggerla nei gesti e negli affanni di Papa Francesco nel viaggio in America Latina, ma anche in tenti incontri e celebrazioni!
"Ogni giorno - afferma il Santo Padre - siamo chiamati tutti a diventare una «carezza di Dio» per quelli che forse hanno dimenticato le prime carezze, che forse mai nella vita hanno sentito una carezza..." ("La carezza di Dio", in L'Osservatore Romano, 1 novembre 2013).
"La cosa importante non è guardarli da lontano o aiutarli da lontano. No, no! È andare loro incontro. Questo è cristiano! Questo è ciò che insegna Gesù... Dobbiamo edificare, creare, costruire una cultura dell'incontro..." ("La cultura dell'incontro...", in L'Osservatore Romano, 8 agosto 2013).
Liturgia e Liturgia della Parola della XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 19 luglio 2015
tratto da www.lachiesa.it