1 febbraio 2015 - IV Domenica del Tempo Ordinario: ciò che davvero conta nella nostra vita di credenti è la relazione con Dio

News del 30/01/2015 Torna all'elenco delle news

La prima lettura di questa domenica, pur nel segno della continuità con le domeniche passate, (nelle quali il tema della Vocazione raccoglieva il senso di tutto l'ascolto) introduce un nuovo spunto di riflessione che la seconda lettura e il vangelo anche sviluppano: ciò che davvero conta nella nostra vita di credenti è la relazione con Dio. Il compito del profeta, (prima lettura), è annunciare non una propria parola, ma la parola di Dio e questo è possibile solamente nell'ambito di una relazione. L'invito della seconda lettura è a preoccuparsi delle cose del Signore, sia nel matrimonio sia nella scelta della verginità. Il vangelo ci dice che è sempre possibile "raccontarsela", ovvero avere una vita divisa tra il desiderio di incontrare Dio e il chiudersi nelle proprie cose, nel non voler cambiare mai.

Il contesto della prima lettura non è poi così distante dalla realtà di oggi: quello che abbiamo ascoltato è il cuore di passaggio più ampio dedicato alla contrapposizione tra gli indovini che le persone (stranieri) consultano e i profeti, inviati invece da Dio (al popolo d'Israele). Dio chiede di scegliere, non c'è alternativa tra lui e gli indovini, non c'è nemmeno possibilità di convivenza: soltanto la Parola di Dio accompagna, non divide, illumina il cammino. Quante sono le voci che risuonano oggi, a quante voci diamo credito o danno credito le persone più semplici, sprovvedute; il cristiano, in forza del battesimo ricevuto, è anche profeta, persona che ascolta la voce di Dio e fattosi compagno di strada dei suoi fratelli li aiuta a scrollarsi di dosso e a far cadere tutto quello che da Dio non viene ma è solo superstizione. Dio ci aiuta in questo scrivendo, insieme all'uomo, la storia della salvezza. Credo sia molto importante, in questo senso, il versetto 16 e 17 della prima lettura (Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: "Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia. Il Signore mi rispose: ") che si riferiscono ad un episodio in cui il popolo si era molto spaventato e benché udisse la voce dall'involucro del fuoco, ebbe paura di morire. Al Signore è piaciuto quello che il popolo ha chiesto. Mi pare molto bello tutto questo: Dio non vuole comunicare con noi attraverso segni della natura, che incutano spavento, ma mediante uomini suscitati di mezzo ai loro fratelli. Attraverso loro il Signore li vuole abituare alla sua presenza in modo che ascoltandolo nella voce umana dei profeti, lo accolgano nella sua stessa voce di Dio divenuto uomo. La storia della salvezza è davvero la storia di Dio con l'uomo!

Per quello che riguarda la seconda lettura, non credo che Paolo voglia dire che ci sono vocazioni più importanti di altre, perché sarebbe in contraddizione con quanto è scritto nel libro della Genesi (lasceranno il padre e la madre e saranno una sola carne). Credo sia necessario soffermarsi sul desiderio di Paolo: voglio che siate senza preoccupazioni, ovvero la necessità di non pre-occupare, cioè occupare prima la mente e il cuore, e su quel come possa piacere che in greco non significa un generico gradimento all'altro, ma implica una totale donazione di sé all'amato. In questo senso allora credo che qua ci sia un richiamo, per tutti, consacrati e sposati, alla responsabilità di questa donazione totale di sé e se alla condizione verginale l'apostolo assegna un ruolo di testimonianza altissimo, vuol dire che altissima diventa anche la responsabilità.

Faccio alcune sottolineature per quello che riguarda il brano di vangelo (ispirato in parte da una omelia di mons. Paglia dell'anno 2006).

Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù, insegnava. Marco scrive che Gesù entrato in città "subito" si reca nella sinagoga a predicare. Peccato che la traduzione proposta dal nuovo lezionario perde per strada questo "subito". Potremmo dire che si mette immediatamente all'opera, senza esitazioni e con il preciso intento di insegnare alla città la sapienza di Dio. Del resto, per questo era venuto. Il Vangelo è lievito di una vita nuova per tutti, non è riservato solo ad alcuni e neppure deve restare ai margini della vita. Le città degli uomini ne hanno bisogno. Qui credo importante sottolineare che il verbo è all'imperfetto: "insegnava" ci dice che è un'operazione mai conclusa, che Gesù instancabilmente insegnava e ancora continua a farlo.

Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. Cafarnao era piena di scribi, di dottori, di teologi, ma nessuno parlava con quella autorità con cui parlava Gesù, ossia con parole che suonavano decisive per la vita delle persone, e che richiedevano scelte impegnative. Non si poteva restare indifferenti al suo insegnamento: gli ascoltatori era come costretti ad una scelta. I numerosi scribi, che pure non mancavano di parole, ma alla fine non lasciavano nessun segno, non entravano nel cuore, non illuminavano nessun cammino: perché? Perché il loro sapere era soltanto un sapere libresco. L'autorità (meglio sarebbe tradurre con autorevolezza) non è frutto di un corso di studi, ma di una vita che fa scelte ben precise e quelle fatte da Gesù fino ad ora nel vangelo di Marco evidentemente persuadono la gente.

Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: «Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». Mi piace qui soffermarmi su questo termine: spirito immondo. Era un uomo malato, un uomo diviso, un uomo forse più vicino a me di quanto io sia disposto ad immaginare, perché conosce Gesù e allo stesso tempo lo tiene a distanza, si domanda cosa c'entri la vita di Gesù con la sua, non vuole avere niente a che fare con lui. Credo davvero che ci sono momenti nella vita nei quali non abbiamo niente a che fare con lui. Momenti nei quali siamo distanti da lui e dal vangelo. Questo accade, scrive mons. Paglia, ogni volta che si impedisce al Vangelo di cambiare il cuore o comunque di dire parole autorevoli sui comportamenti. La divisione emerge quando Gesù parla: ha questo potere la Parola di Dio, quella degli scribi non aveva questa forza.

E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell'uomo». E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Il versetto ci dice qualcosa circa la dolorosa fatica del cambiamento. Non è a buon prezzo, provoca dolore e sofferenza. Forse è per questo che sono così chiuso alla Parola di Dio e faccio tanta resistenza, perché non è una Parola facile, tranquilla, superficiale; al contrario penetra ed inizia un processo di verità che, ripeto, è doloroso. Chiediamo questo dono allora, per noi e per le nostre comunità: il dono di un cuore indiviso che si specchi nel cuore del Signore Gesù e sia seme di unione in ogni comunità parrocchiale.

Omelia di don Maurizio Prandi

 

Il Signore è venuto a liberare l'uomo

Questo Vangelo ci riporta la freschezza della sorgente, lo stupore e la freschezza del­l'origine: la gente si stupiva del suo insegnamento.

Come la gente di Cafarnao, anche noi ci incantiamo ogni volta che abbiamo la ventura di incontrare qualcuno con parole che trasmet­tono la sapienza del vivere, una sa­pienza sulla vita e sulla morte, sul­l'amore, sulla paura e sulla gioia. Che aiutano a vivere meglio. Di fat­to, sono autorevoli soltanto le pa­role che accrescono la vita.

Gesù insegnava come uno che ha autorità. Ha autorità chi non sol­tanto annuncia la buona notizia, ma la fa accadere. Lo vediamo dal seguito del racconto: C'era là un uomo posseduto da uno spirito im­puro.

La buona notizia è un Dio che libera la vita.

Gesù ha autorità perché si misura con i nostri problemi di fondo, e il primo di tutti i problemi è «l'uomo posseduto», l'uomo che non è libero. Volesse il cielo che tutti i cristiani fos­sero autorevoli... E il mezzo c'è: si tratta non di dire il Vangelo, ma di fa­re il Vangelo, non di predicare ma di diventare Vangelo, tutt'uno con ciò che annunci: una buona notizia che libera la vita, fa vivere meglio, dove nominare Dio equivale a confortare la vita. Mi ha sempre colpito l'e­spressione dell'uomo posseduto: che c'è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l'uomo, a demolire ciò che lo imprigiona, è venuto a portare spada e fuoco, a ro­vinare tutto ciò che non è amore.

Per edificare il suo Regno deve man­dare in rovina il regno ingannatore degli uomini genuflessi davanti agli idoli impuri: potere, denaro, succes­so, paure, depressioni, egoismi. È a questi desideri sbagliati, padroni del cuore, che Gesù dice due sole paro­le: taci, esci da lui. Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovi­na, come aveva sognato Isaia, van­no in rovina le spade e diventano fal­ci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l'uomo libero e amante.

Questo Vangelo mi aiuta a valutare la serietà del mio cristianesimo da due criteri: se come Gesù, mi oppongo al male dell'uomo, in tutte le sue for­me; se come lui porto aria di libertà, una briciola di liberazione da ciò che ci reprime dentro, da ciò che soffo­ca la nostra umanità, da tutte le ma­schere e le paure. Un verso bellissi­mo di Padre Turoldo dice: Cristo, mia dolce rovina, gioia e tormento insie­me tu sei. Impossibile amarti impu­nemente. Dolce rovina, Cristo, che rovini in me tutto ciò che non è a­more, impossibile amarti senza pa­garne il prezzo in moneta di vita! Im­possibile amarti e non cambiare vi­ta e non gettare dalle braccia il vuo­to e non accrescere gli orizzonti che respiriamo.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Nostalgia di profeti

L'Antico Testamento era tempo di profeti, e Israele la loro terra. La storia di questo popolo è sempre stata ricca di elementi profetici, di qualcuno che parlava "in nome di Dio", che per conto di lui "proferiva parole": prevalentemente parole di saggezza, ma anche parole di condanna, di denuncia, di stimolo e - perché no? - di misericordia.

E stando al brano di Deuteronomio, la profezia nasce in Israele da un'esigenza del popolo: ovvero, dalla necessità di avere qualcuno che facesse da intermediario tra Dio e il popolo stesso. Siamo nel contesto dell'Esodo, dell'uscita dalla schiavitù d'Egitto, contesto nel quale il popolo d'Israele si sta abituando a comunicare con Dio in forma "diretta".

Senz'altro, Mosè è l'intermediario tra Dio e il popolo, perché lui parla faccia a faccia con Dio come nessun altro in Israele: ma lo stesso popolo ha l'opportunità (a dire il vero non sempre molto opportuna) di vedere i prodigi di Dio direttamente con i propri occhi. A partire dalle piaghe d'Egitto fino alle teofanie del Sinai, passando attraverso il Mar Rosso diviso in due parti, Israele sperimenta direttamente la grandezza della potenza di Dio.

E non sempre questo suscita fascino e ammirazione. L'esperienza di Dio è sempre anche un'esperienza tremenda, terrificante, soprattutto quando si manifesta in maniera violenta e inattesa. Ecco perché il popolo d'Israele, viste le continue manifestazioni di Dio, ha paura di esserne colpito e di morirne, e chiede a Dio attraverso Mosè di avere un "profeta", ovvero qualcuno che manifesta loro Dio ma al tempo stesso li salva dalla sua ira.

E Dio mantiene la promessa: darà loro un profeta, a patto che questo profeta sia sempre onesto e parli sempre in nome di Dio, e non a nome suo personale. Ovvero, il profeta non dovrà approfittare della funzione affidatagli da Dio con la presunzione di comunicare al popolo parole sue; pena, addirittura, la sua morte.

Sì, perché il profeta è colui che parla le parole di Dio, non le sue. Il profeta è colui che annuncia una salvezza che non è la sua, una giustizia che non è la sua, una vittoria che non è la sua. Sembrerebbe una persona debole, uno che non ha attributi da avanzare, uno che conta poco: in realtà, la sua potenza è quella di colui che viene a compiere opere grandi e a dire parole forti in nome di un altro. Scaccerà anche i demoni, tanto è forte: ma sarà sempre in nome di Dio. Se prova ad approfittare di questo, con Dio ha chiuso.

Abbiamo nostalgia, oggi di profeti. La società, il mondo, la cultura, la religione, la Chiesa, hanno nostalgia di profeti. Anche questa terra latinoamericana da cui sto scrivendo, teatro di lotte e di rivoluzioni animate da spirito di giustizia e sete di verità, oggi sembra aver perso la profezia.

Un qualunquismo imperante si è impadronito di noi al punto che non abbiamo più voglia di gridare, di annunciare, di enunciare, di denunciare, di dire la verità di fronte alle ingiustizie, di parlare chiaro laddove nessuno parla chiaro. Tant'è, nulla cambia: chi ha i soldi ha sempre comandato, comanda, e sempre comanderà. E allora rimaniamo assuefatti a questo modo di essere, di vivere e di fare, e non ci importa più nulla di parlare chiaro, magari in nome di Dio, per mostrare un modello differente.

Ma il Cristo del vangelo di Marco non ci sta. Il profeta potente in parole ed opere, Gesù di Nazareth, ha ancora la forza di dire "Taci" alla voce dell'ingiustizia; ha ancora il potere di ordinare "esci da costui" alla violenza che alberga nel cuore dell'uomo; ha ancora il desiderio di mostrarci che un mondo diverso è possibile.

Sì, abbiamo nostalgia - e non è solo una constatazione, ma un'esortazione - di uomini forti e profetici che dicano chiare le cose di Dio. Ce ne sono pochi, quasi sono scomparsi, in questo mondo appiattito di fronte all'ingiustizia: ma non per questo noi non continueremo a sperare, e ad invocare, come il popolo con Mosè, che Dio ci mandi qualcuno che parli a lui in nostro favore e che ponga la parola "fine" a un mondo fatto di immobile, statica e dannosa conformazione con il nulla che lo circonda.

Dio dei profeti, se ci sei ancora, infiammaci con il fuoco della tua verità. E che la terra bruci non per l'ira del tuo sguardo, ma per la fiamma ardente della tua parola di giustizia.

Omelia di don Alberto Brignoli

 

Sai ciò che credi, non sei ciò che credi

Questo è il primo episodio che troviamo nel Vangelo di Marco. Il personaggio è anonimo. "Perché Mc lo mette all'inizio?", dobbiamo chiederci. Infatti questo episodio poteva metterlo doveva voleva, altrove, in altre parti del vangelo: "Ma perché allora lo mette proprio qui?". Mc lo mette qui perché questa è la chiave di lettura per accogliere Gesù. Il vangelo dice: "Gesù con i suoi andarono a Cafarnao e immediatamente, di sabato, Gesù entrò nella sinagoga per insegnare". Nella sinagoga si andava di sabato e Gesù, come ogni buon ebreo ci va. I luoghi frequentati da persone religiose saranno per Gesù quelli più pericolosi. ..E' sabato e Gesù va nella sinagoga. Ma ci va per insegnare (Mc 1,21) e non per partecipare al culto. Questo è importante: Gesù non partecipa mai ai culti della propria religione. Gesù non va nella sinagoga per pregare o per le liturgie: lui ci va per insegnare. Questo vuol dire che c'è un modo di pregare e di fare liturgia che non interessa a Dio. Se la preghiera e la liturgia, infatti, non diventano vitalità, amore concreto, passione, scelte, decisioni, coraggio, guarigione, fiducia, apertura, solidarietà, non interessano a Dio. Se la liturgia è evasione dalla realtà e dalla vita non è incontro con il Dio della Vita (20,31). ...Torniamo allora alla domanda iniziale: perché Mc mette proprio all'inizio del suo vangelo questo episodio? Il vangelo è liberante per chi ama la vita ma straziante per chi ama obbedire. Cosa dice a me questo vangelo allora? Stai attento, verifica ciò che credi.

Una credenza non è né buona né cattiva: dipende! In ogni caso noi siamo quello che crediamo e viceversa quello che crediamo ci trasforma. Una cosa è difficile tanto quanto tu vuoi che sia difficile. Tutto è difficile prima di essere facile. La tua vita sarà esattamente ciò che tu credi di te ma tu non sei ciò che credi di te. Ciò che crediamo fa la differenza.

Omelia di don Marco Pedron

 

Liturgia e Liturgia della Parola della IV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 1 febbraio 2015

tratto da www.lachiesa.it