16 novembre 2014 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: il talento di coltivare e custodire la felicità degli altri
News del 14/11/2014 Torna all'elenco delle news
Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Dio ci consegna qualcosa e poi esce di scena. Ci consegna il mondo, con poche istruzioni per l'uso, e tanta libertà. Un volto di Dio che ritroviamo in molte parabole: ha fiducia in noi, ci innalza a con-creatori, lo fa con un dono e una regola, quella di Adamo nell'Eden ' coltiva e custodisci' il giardino dove sei posto, vale a dire: ama e moltiplica la vita, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Nessun uomo è senza giardino, perché ciò che è stato vero per Adamo è vero da allora per ogni suo figlio.
I talenti dati ai servi, dal padrone generoso e fiducioso, oltre a rappresentare le doti intellettuali e di cuore, la bellezza interiore, di cui nessuno è privo, di cui la luce del corpo è solo un riflesso, annunciano che ogni creatura messa sulla mia strada è un talento di Dio per me, tesoro messo nel mio campo. E io sono l'Adamo coltivatore e custode della sua fioritura e felicità. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli: «l'essenza dell'amore non è in ciò che è comune, è nel costringere l'altro a diventare qualcosa, a diventare infinitamente tanto, a diventare il massimo che gli consentono le forze». (Rilke). Arriva il momento del rendiconto, e si accumulano sorprese. La prima: colui che consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne consegna solo quattro. Non c'è una tirannia o un capitalismo della quantità, perché le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Occorre solo sincerità del cuore e fedeltà a se stessi, per dare alla vita il meglio di ciò che possiamo dare. La seconda sorpresa: Dio non è un padrone esigente che rivuole indietro i suoi talenti con gli interessi. La somma rimane ai servitori, anzi è raddoppiata: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto.
I servi vanno per restituire, e Dio rilancia. Questo accrescimento di vita è il Vangelo, questa spirale d'amore crescente è l'energia di Dio incarnata in tutto ciò che vive.
Si presentò infine colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: ho avuto paura. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura delle sfide della vita, perché la paura paralizza, ci rende perdenti: quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per la paura di finire sconfitti! Il Vangelo è maestro della sapienza del vivere, della più umana pedagogia che si fonda su tre regole: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. E soprattutto da quella che è la paura delle paure: la paura di Dio.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Nel volto di Dio la nostra libertà
Avverrà come a un uomo Questa Parabola, nella economia del capitolo 25 di Matteo, sta in mezzo tra la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e la parabola del giudizio finale (Mt 25,31-46). Tutte e tre parlano del Regno di Dio, all'inizio come attesa nella vigilanza previdente, poi come responsabilità e impegno dei doni ricevuti che, ultimo tema, non sono orientati a se stessi ma messi a servizio degli altri, soprattutto nella accoglienza degli ultimi.
Interessante è il linguaggio e la tipologia dell'oggetto della parabola mutuato dal mondo degli affari, molto concreto che non lascia spazio alla spiritualità o alla religiosità: beni, talenti, investire, impiegare, guadagnare, denaro, conti, potere, banchieri, interesse. Sembra che Matteo voglia suggerire che la Fede non è un sentimento pio e devoto, neppure una appartenenza religiosa o la partecipazione al culto, a dei riti, quanto un agire coraggioso nella storia degli uomini, con gli strumenti umani, mettendo a rischio se stessi e le proprie cose.
Consegnò loro i suoi beni La parabola parla proprio di una specifica vocazione: chiamò i suoi servi per consegnare i suoi beni. Neppure si tratta di un affidamento temporaneo o in custodia, ma proprio di una consegna. Si potrebbe quantizzare la somma (enorme) che ognuno ha ricevuto e riferirlo all'oggi ma non è di grande importanza perché i talenti sono un pretesto, uno stratagemma, l'oggetto della parabola è il comportamento dei servi, le loro capacità, la fiducia, l'iniziativa, l'intraprendenza.
La differenza di quanto è ricevuto corrisponde alle capacità di ciascuno, dunque quell'uomo conosce i suoi servi ma adesso li lascia completamente liberi, non dà indicazioni, istruzioni o compiti, piuttosto piena fiducia, semplicemente consegnando ciò che è suo alla libera iniziativa di ciascuno. La partenza dell'uomo ne è il segno.
La libertà è qualcosa che si ha "dentro", è coscienza di se stessi. Nessuno è libero se non è padrone di se stesso (Epitteto) e di ciò che possiede. I servi che subito andarono a "lavorare nei talenti" ricevuti hanno preso coscienza della propria libertà ma anche di ciò che è diventato di loro proprietà. Comprendono che quell'uomo ha fatto un gesto di fiducia e libertà che merita una risposta feconda.
È proprio la commistione tra libertà e possesso che genera iniziativa e l'agire responsabile. Non è semplice né immediato, richiede equilibrio perché non ci sia sopravvento di libertà o di possesso (non solo di ciò che è materiale), neppure presunzione dell'uno o dell'altra; non di rado occorre saper remare con fatica controcorrente a un pensiero dominante. Tanti disastri nella storia dell'uomo (e nella nostra) derivano proprio dalla discrasia tra libertà e proprietà, specialmente di ciò che riteniamo di tutti o di nessuno, a iniziare dai beni della terra e lo stesso pianeta, la sua terra, i mari, l'aria, il sottosuolo, le sue risorse.
Ho avuto paura Il terzo servo va a seppellire ciò che ha ricevuto, sente bisogno di conservarlo con cura perché non lo ritiene suo ma di quel padrone, un uomo duro, di cui ha paura. Mentre gli altri servi, nel rendere conto, semplicemente raccontano ciò che hanno fatto e mostrano il guadagno, il terzo restituisce ciò che ha ricevuto al padrone: ecco ciò che è tuo. L'idea che quel servo si è fatta del suo signore non corrisponde alla considerazione che invece ne hanno gli altri, non crede alla sua generosità, alla gratuità, anzi lo ritiene avido di ciò che non gli appartiene. L'immagine che ha di se stesso è quella del servo-schiavo e non del servitore-erede. Non ha avuto fiducia né nel padrone né in se stesso, insieme al denaro ha seppellito la sua vita, è rimasto al buio, nella solitudine. Non ha neppure considerato la possibilità di condividere con altri ciò che ha ricevuto: avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri. È il comportamento di chi dice: "Non faccio male a nessuno, non rubo, non ho ucciso", ma si è privato della dimensione d'amore.
«Sotterrando il tuo oro, tu in realtà hai sotterrato il tuo cuore. Sì, tu sei povero, non possiedi alcun bene: sei povero d'amore, povero di bontà, povero di fede in Dio, povero di speranza eterna» (San Basilio).
Quello che influisce nella nostra vita, e non solo nel suo aspetto spirituale e religioso, è l'idea che ci siamo fatti di Dio, del suo volto. I farisei immaginavano Dio come un Giudice severo e le persone valevano davanti a lui in base ai meriti conquistati con le osservanze. Questa immagine di Dio senza amore toglie libertà, ingenera paura e impedisce la crescita umana.
Ma Dio non è così: «Perché avete paura, gente di poca fede?» (Mt 8,26).
"Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nell'amore. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo" (1Gv 4, 18-19).
L'amore mette in moto la vita, ci fa stare in piedi per accettare la responsabilità della vita senza nascondigli, senza paura ma con coraggio, passione e intraprendenza.
Omelia di don Luciano Cantini
Entra nella gioia del tuo Signore
La parabola dei talenti Mt (25,14-30) è la più lunga delle parabole evangeliche ed è collocata alla fine del Vangelo di Matteo. Ciò significa che il suo messaggio ne è il punto di arrivo. “Bene, servo buono e fedele: nelle cose piccole sei stato fedele, nelle cose grandi ti farò stare. Entra nella gioia del tuo Signore”: in questa frase, al positivo, come nell’altra al negativo: “Servo cattivo e pigro: tu conosci. Gettate questo servo inutile nelle tenebre.”, troviamo la visione sintetica del discepolo di Gesù secondo Matteo. Il discepolo di Gesù vive di fede. E’ sulla loro fedeltà, non sul rendimento che sono giudicati i due servitori e non sono i talenti che contano, ma la loro fede. Il discepolo di Gesù è il servo “buono” e “fedele” perché realizza radicalmente se stesso ascoltando la Parola del suo Signore ed incarnandola fedelmente nella concretezza della vita.
In questa pagina ritorna continuamente il verbo “consegnare” ,”affidare” che esprime la “fiducia” che quest’uomo pone nei suoi servi, dei quali conosce personalmente le capacità e ai quali affida i “suoi” beni. Questa nostra parabola è essenzialmente “la storia della fiducia del Signore” e il suo senso fondamentale è quello di rivelarci l’esperienza di Dio di Gesù: Dio è Colui che ha fiducia nell’uomo unicamente perché lo ama e l’uomo è chiamato a credere in Colui che ripone la sua fiducia in lui. La fede è questa relazione di fiducia che lega Dio con l’uomo: quanto più si dilatano gli spazi della fede e tanto più si dilatano gli spazi dell’esistenza dell’uomo, la sua capacità di relazione con gli altri e con il mondo, e tanto più l’uomo diventa capace di vedere e di gustare la bellezza dei doni della vita. Tutto inizia da un atto di fiducia accolto, e tutto diventa un dono che si dilata, quanto più la logica della gratuità si diffonde.
E la parabola continua a descrivere il discepolo di Gesù, il servo buono perché fedele: “sei stato fedele nelle piccole cose, ti farò stare in quelle grandi”. E’ la logica del Vangelo: il piccolo seme diventa un grande albero, il lievito nascosto fermenta la pasta, e la fede nell’amore che Dio ha per noi, cambia il mondo. E’ una relazione di Amore che si instaura tra Dio e l’uomo, meravigliosa, affascinante, ma anche piena di responsabilità verso il mondo. Ma proprio questa è la novità: l’uomo nel quale Dio ha fiducia, riceve da Lui pure la forza per sostenere la responsabilità che lo rende capace di fare nuovo il mondo.
“Entra nella gioia del tuo Signore”: il discepolo di Gesù è la persona chiamata alla esperienza della gioia più intensa, che non sta nel possesso delle cose o nelle realizzazioni ottenute ma nell’entrare nell’intimità con il suo Signore. Il cammino della fede è il farsi della storia generata dal piccolo gesto di accoglienza dell’immensa fiducia di Dio verso l’uomo: il punto di arrivo e il suo significato è la relazione d’Amore più intima tra l’uomo e il suo Signore.
L’ultima parte della parabola che si ferma a lungo sul servo che ha ricevuto “un” talento, ha questo scopo preciso: sottolineare ciò che è essenziale per il Vangelo. Il dono è “uno e questo “uno” è Gesù, il piccolo seme, il lievito nella pasta, il “dono di Dio” totalmente offerto, messo nelle mani dell’umanità: è la rivelazione di un Dio che ha fiducia nell’uomo tanto da consegnarsi a lui. Chiede soltanto di essere creduto, chiede solo amore: chi entra nella sua intimità, trova il senso della vita, la gioia, e sperimenta l’unica forza che può trasformare il mondo.
Matteo, guardando alla sua comunità vede quante resistenze l’uomo opponga a questa fede: certo, Dio continua ad offrirsi, continua ad operare con chi almeno comincia ad aprirsi a Lui, ma l’ “Uno” è lì, fragile pane offerto alla fame dell’uomo. Quanto è difficile per l’uomo abbandonare l’idea di un Dio, padrone duro, esigente, che incute paura, alla quale corrisponde l’immagine di un uomo che per renderselo amico diventa altrettanto duro e in nome di Dio combatte battaglie, diventa violento.
Matteo, oggi, parla a noi. L’uomo moderno fa come il servo del Vangelo: non riuscendo a staccarsi dall’idea di un Dio violento che impedisce all’uomo di vivere, sotterra Dio e vive senza di lui, ma poi si smarrisce nella sua solitudine. Matteo ci annuncia: Gesù è qui, ci mostra che Dio è solo Amore fedele. Se crediamo l’Amore che Dio ha per noi, sperimentiamo che Lui è la pienezza della nostra vita.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Vigilanza e sobrietà in vista dell'eternità
Le ultime domeniche dell'anno liturgico sono un forte appello a guardare avanti e a fissare il nostro sguardo nell'eternità, dove siamo diretti, camminando nel tempo ed aspettando il giorno in cui il Signore ci chiamerà a rendere conto della nostra vita, subito dopo la morte. Poi ci sarà anche il giudizio finale, quello che noi chiamiamo universale in quanto riguarderà tutti e tutto. Nell'attesa gioiosa e non ansiosa di quanto dovrà accadere, noi siamo chiamati a vigilare su noi stessi vivendo un vita di sobrietà, senza eccessi di nessun genere....
E' San Paolo Apostolo, nella bellissima prima lettera scritta ai Tessalonicesi in cui tratta appunto il tema della venuta del Signore, a farci riflettere seriamente sul nostro futuro e sul mondo che verrà. ...L'atteggiamento migliore è quello di attendere la venuta del Signore in uno stato di grazia, uscendo dalle tenebre del peccato e della presunzione di stare a posto e di non aver bisogno di purificazione e conversione. Dobbiamo vivere sempre come figli della luce, perché non apparteniamo alla notte, ma al giorno; non apparteniamo alle tenebre, ma alla luce, perché Dio è luce e in questa luce che noi viviamo e a questa luce dobbiamo aspirare nell'eternità.
E sempre sul tema del secondo avvento del Signore nella storia dell'uomo si focalizza il testo del Vangelo di oggi, tratto dall'evangelista Matteo, nel quale è riportata la parabola dei talenti che devono fruttificare produce opere buone e di santità, opere di eternità. Che sia poco o che sia molto che abbiamo ricevuto dal Signore, questo non può restare inoperoso, non può non produrre qualcosa, anche il minimo deve rendere, a costo di affidare questo talento alla custodia o all'iniziativa degli altri. L'impegno per il regno di Dio e per la santificazione della nostra vita deve essere costante e personale, deve passare attraverso atti decisionali che non ammettano scusanti o giustificazioni di sorta...
In altri termini dobbiamo essere come la donna attenta ed oculata di cui ci parla il libro dei Proverbi, nel quale vediamo all'opera la donna volenteroso di operare per la gloria del Signore e per la felicità della propria famiglia. Il programma di santità per donne ed uomini che temono ed amano il Signore sta appunto in questo testo.
Fedeltà, carità, timore ed amore di Dio, operosità per il Regno di Dio sono gli standard minimi per essere sulla giusta strada che conduce alla felicità vera e duratura. Non è la bellezza esteriore, né il fascino umano, ma è la bellezza del cuore ed il fascino interiore a rendere l'uomo e la donna capace di parlare il linguaggio verso dell'eternità e di operare in vista di essa. Con queste profonde convinzioni spirituali, possiamo elevare a Dio la nostra supplica, insieme a tutti i fedeli che si raccoglieranno in preghiera nella casa del Signore, in questa domenica penultima dell'anno liturgico: "O Padre, che affidi alle mani dell'uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa' che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo giorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno". Amen.
Omelia di padre Antonio Rungi
Liturgia e Liturgia della Parola della XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 16 novembre 2014