19 ottobre 2014 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario: A Cesare le cose, a Dio la persona con il suo cuore
News del 18/10/2014 Torna all'elenco delle news
La trappola è ben congegnata: È lecito o no pagare il tributo a Roma? Fai gli interessi degli invasori o quelli della tua gente? Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la vita, o per la spada dei Romani o per il pugnale degli Zeloti. Gesù non cade nella trappola: ipocriti, li chiama, cioè attori, commedianti, la vostra vita è una recita per essere visti dalla gente (Mt 6,5)...
Mostratemi la moneta del tributo. Siamo a Gerusalemme, nell'area sacra del tempio dove non doveva entrare nessuna effigie umana, neppure sulle monete. Per questo c'erano i cambiavalute all'ingresso. I farisei, i devoti, con la loro religiosità ostentata, tengono invece con sé, nel luogo più sacro al Signore, la moneta pagana proibita, il denaro dell'imperatore Tiberio, e così sono loro a mettersi contro la legge e a confessare qual è in realtà il loro Dio: il loro idolo è mammona. Seguono la legge del denaro, e non quella della Thorà. I commedianti sono smascherati.
È lecito pagare? avevano chiesto. Gesù risponde cambiando il verbo, da pagare e rendere: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Cesare non è solo lo Stato con le sue istituzioni e le sue facce note, ma l'intera società nelle cui relazioni tutti ci umanizziamo. «Avete avuto, restituite», voi usate dello Stato che vi garantisce strade, sicurezza, mercati. Rendete, date indietro (il give back degli anglosassoni), come in uno scambio pagate tutti il tributo per un servizio che raggiunge tutti.
Come non applicare questa chiarezza semplice di Gesù ai nostri giorni di faticose riflessioni su crisi economica, manovre, tasse, elusione fiscale; come non sentirla rivolta anche ai farisei di oggi per i quali evadere le tasse è un vanto?
Gesù completa la risposta con un secondo dittico: Restituite a Dio quello che è di Dio. Siamo immersi nella gratuità: di Dio è la terra e quanto contiene; l'uomo e la donna sono dono che proviene da oltre, cosa di Dio. Restituiscili a Lui onorandoli, prendendotene cura come di un tesoro.
Ogni donna e ogni uomo sono talenti d'oro offerti a te per il tuo bene, sono nel mondo le vere monete d'oro che portano incisa l'immagine e l'iscrizione di Dio. A Cesare le cose, a Dio la persona, con tutto il suo cuore, la sua bellezza, la sua luce, e la memoria viva di Dio.
A ciascuno di noi Gesù ricorda: resta libero da ogni impero, ribelle ad ogni tentazione di venderti o di lasciarti possedere. Ripeti al potere: io non ti appartengo.
Ad ogni potere umano Gesù ricorda: Non appropriarti dell'uomo. Non violarlo, non umiliarlo, non manipolarlo: è cosa di Dio, mistero e prodigio che ha il Creatore nel sangue e nel respiro.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Quello che è di Cesare datelo a Cesare, ma a Dio quello che è di Dio
Dopo le tre parabole, ancora nel Tempio, Matteo presenta quattro controversie tra Gesù e i suoi avversari: è una disputa-scontro tra maestri, i dottori della Legge e Gesù, "maestro" la cui autorità è nuova, fondata sulla sua relazione personale con Dio. Gli avversari di Gesù affrontano questioni vive, sempre più importanti, usando i metodi tecnici della loro discussione rabbinica: si rivolgono a lui, chiamandolo "maestro". Ma la loro diventa sempre di più una provocazione: come può rispondere a problemi tanto delicati, lui che va oltre la Legge? In realtà, è lui che fa prendere coscienza dell'insufficienza delle loro soluzioni costringendoli ad interrogativi sempre più radicale, ponendoli alla fine di fronte a ciò che mette in crisi tutto il loro sistema di vita e di pensierosu: la sua presenza tra loro, lì, nel Tempio, li costringe ad una presa di posizione radicalmente nuova.
Tutto questo è per noi, oggi: chi è per noi Gesù? Abbiamo il coraggio di credere l' "Amore" che ci ha fatto conoscere nelle parabole come fonte della sua "nuova autorità"? Oppure pensiamo ancora che sia la Legge, con i suoi dottori, la fonte dell'autorità che regge la vita?
Il racconto di Matteo (22,15-21) comincia dicendo che "i farisei se ne andarono e tennero consiglio per coglierlo in fallo nella sua parola": lucidamente sono coscienti, i farisei, della radicalità del loro scontro con Gesù, la cui "parola" manifesta la differenza della sua autorità. A loro importa minare l'autorevolezza della la sua parola, mostrarne l'insufficienza nella concretezza dei problemi.
Nell'atmosfera delicata della Giudea del tempo, bastava una parola per provocare la collera della folla o l'intervento brutale della forza romana. Ed è proprio su questo che si concentra la strategia degli oppositori di Gesù: sulla "parola" chiara, libera, di Gesù, che non può, secondo i loro calcoli, le loro strategie, non provocare una rivolta contro di lui, che lo elimini dalla scena. Tutto è ben studiato da parte dei farisei che mandano a Gesù i loro discepoli insieme con gli Erodiani: si tratta di gruppi che, per motivi diversi hanno trovato una modalità di convivenza pacifica con i Romani. Il ritratto che essi fanno del "maestro" Gesù è positivo: egli è fedele alla Legge, è "vero" e non è condizionato da nessuno perché "non guarda in volto all'uomo". "Verità" e "libertà" riconoscono in Gesù: ma ancora non hanno capito che egli non è condizionato dalle reazioni dell'uomo perché guarda il volto del Padre. Così, mentre essi si illudono di poter prenderlo in fallo ritenendo fragile la radice della sua libertà di giudizio, coinvolgendolo in una disputa che contrapponeva i diversi partiti del tempo: "E' lecito o no pagare il tributo a Cesare?", è lui che, partendo proprio da ciò che avevano pensato tenendo "un consiglio" ufficiale, li costringe a percorrere un cammino, che non è contro la Legge di cui essi sono maestri, ma che oltrepassandola, raggiunge la sua pienezza. Così la disputa se sia lecito o no pagare il tributo a Cesare, disputa teologica sull'autorità della Legge, alla quale sono legati i farisei, diventa anora una volta una disputa sull'autorità di Gesù, sulla radice della libertà non contraria alla Legge e riconosciuta dai farisei, nella quale egli si muove. a L'ipocrisia della loro condotta bollata Gesù è per il modo subdolo con cui si rapportano a lui, ma è ancora di più la doppiezza con cui si comportano coloro che fanno coincidere la fedeltà alla Legge con la fedeltà a Dio, dovendo poi cercare vie che giustificano il loro continuo sforare la Legge per la complessità della vita umana. La libertà di Gesù è fondata sulla relazione filiale con Dio: la Legge ne è una manifestazione autorevole, ma storica. Se viene identificata con Dio, rischia di far morire l'esperienza viva di Dio, rischia di far morire l'uomo che vive della relazione con Dio. Gesù si fa mostrare la moneta del tributo: i farisei l'avevano, lì, nel Tempio. Hanno già sforato la Legge. Adesso Gesù invita i suoi interlocutori a riscoprire il fascino della relazione viva con Dio: sulla moneta c'è l'immagine e l'iscrizione di Cesare. L'immagine di Cesare, del potere, è solo su una moneta, su una cosa: tutto è fragile. È con una cosa che si stabilisce la relazione di un potere fragile. Ma l'uomo è immagine di Dio: se l'uomo vive la sua relazione con Dio è libero, vive di tutto, dentro la storia, ma non è schiavo di niente. L'uomo non vive fuori del mondo, ma non ne è servo: l'uomo vive in relazione con Dio, immagine inesauribile dell'infinito, mai definitivamente scritta. Sperimentare l'infinito dentro le cose anche drammatiche del mondo è l'esperienza del Figlio di Dio, libero per amare, negli eventi concreti della storia, senza essere schiavi di nulla e di nessuno. "Le cose di Cesare, datele a Cesare, ma quelle di Dio datele a Dio": quanto più la relazione personale è viva, dinamica, non ipocrita, vera, tanto più realizza il senso dell'esistenza dell'uomo immagine libera dell'infinito di Dio.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
A chi apparteniamo?
La frase che Gesù pronuncia, come risposta al tentativo di ?coglierlo in fallo' da parte dei farisei, rigidi osservanti della Legge, e degli erodiani, seguaci del fanatico tetrarca della Giudea, è divenuta una ?sentenza' famosa e utilizzata - più o meno appropriatamente - nel linguaggio comune. D'altro canto, quando si estrapola un'espressione dal contesto, facilmente la si può impiegare per difendere tutto e il contrario di tutto. Si è parlato così della legittima autonomia della Chiesa rispetto allo Stato; della supremazia del potere spirituale su quello temporale; dell'obbligo di rispettare le leggi civili senza ?se e senza ma', rinunciando a ogni forma di obiezione di coscienza che non si limiti a una intimistica ricerca dell'incontro con Dio, a rischio di alienazione...
Nel contesto culturale e sociale in cui viviamo oggi, per certi aspetti molto diverso da quello in cui si muoveva l'ebreo Gesù, e nella complessità dei rapporti tra la religione e la società civile, appare necessario cogliere innanzitutto un richiamo forte e deciso alla nostra responsabilità. Al cristiano, discepolo del Messia Gesù, le ?cose materiali' interessano, eccome! Ma non tanto per una questione di dibattiti sterili e di piccinerie, che in fondo si limitano spesso a vedere ciò che ?più mi conviene'. Pagare le tasse o non pagare le tasse, dividere l'eredità o meno, rispettare le leggi dello Stato oppure no non sono esattamente le questioni che riscaldano il cuore di Gesù e dei suoi. Almeno non in maniera così superficiale.
Gesù, infatti, fa appello a una coscienza storica più profonda, capace di andare al di là degli apparenti termini del conflitto, per cercare le domande che stanno sotto ad esso. In questo modo, Gesù sollecita i suoi ascoltatori, e noi per primi, a coltivare e far crescere una coscienza personale ben più radicata nelle vicende del mondo e assai più capace di incarnarsi - proprio come ha fatto Lui! - nella realtà. Sì, al cristiano le ?cose materiali' interessano, ma interessano nel loro intreccio rivelativo di quanto esiste più in profondità. Separare, infatti, in maniera netta e dualista la materia dallo spirito non è cristiano, ed è sostanzialmente un negare il mistero dell'incarnazione. Dunque, significa non essere discepoli di Gesù. Invece, ?le cose di lassù' (cfr. Col 3,1) si trovano proprio dentro ?le cose di quaggiù', e le trasfigurano!
La storia dell'umanità, la vita di tutti gli uomini e di ogni singolo uomo, hanno una intima dimensione simbolica, e sono luogo di manifestazione della vita divina. Non vi sono altri modi per vivere e testimoniare la fede nel Dio creatore e salvatore che abitare responsabilmente la città dell'uomo. Tutti i grandi santi lo insegnano. Soprattutto i martiri, capaci di pagare di persona il prezzo di questo radicamento nella storia del popolo, come luogo dell'incontro con la vita di Dio. Lo diciamo, fra i tanti, con le parole del vescovo martire Monsignor Romero, ucciso in San Salvador (Centro America) nel 1980, mentre celebrava la Santa Messa, a causa della sua coraggiosa presa di posizione a favore dei poveri perseguitati: ?non esistono due storie: una di Dio e l'altra dell'uomo. Esiste un'unica storia di salvezza, che si dipana misteriosamente ma efficacemente nelle vicende del popolo santo di Dio, incarnato nella storia più ampia dell'umanità'.
Guai a noi, allora, se cerchiamo di scappare in un rifugio intimistico che ci esoneri dal discernimento quotidiano sul nostro impegno perché la nostra città sia più umana, e quindi più vicina al sogno di Dio per l'uomo. Guai a noi, d'altro canto, se riduciamo l'impegno a un frenetico lavoro sociale o, peggio ancora, a una risma di rivendicazioni verso un potere esercitato male, ma che forse nel nostro piccolo anche noi gestiamo in modo inopportuno. In fondo, l'alienazione spiritualista e il materialismo ateo sono le due facce della stessa moneta. Un Dio senza l'uomo, e il Cesare sopra l'uomo nascono dalla stessa tragedia, quella di separare ciò che Dio ha unito: corpo e anima, carne e spirito, Padre e fratelli!
Separare, dividere, spezzettare l'integrità della persona e la comunione fra i popoli. In fondo è questo il grande peccato di ogni dittatura di turno: che sia quella di un potente o di un governo, oppure quella sottile e insidiosa della cultura del relativismo. Chi separa non viene da Dio, Uno e Trino, ma viene dal diavolo, il ?divisore'.
Mentre il cuore dell'uomo ha impresso in sé l'immagine della Trinità! E la carne dell'uomo ha iscritto nel DNA la Parola fatta carne! Siamo a immagine e somiglianza del Figlio, il Verbo eterno venuto ad abitare in mezzo a noi, Colui che di sé ha detto: ?Chi vede me, vede il Padre'. E con lettere d'oro, lo Spirito ha fatto di noi la lettera che Dio ha scritto per l'uomo di oggi.
Come ci insegna sant'Agostino, allora, Gesù oggi ci invita a tornare all'unità del nostro cuore per prendere coscienza della nostra appartenenza più intima e più vera. Perché in fondo l'impegno per un mondo più giusto e per una umanità più fraterna, secondo gli occhi e il cuore di Dio, è una questione di appartenenza. Nella frantumazione che genera solitudine, si alza il grido dall'intimo di ogni persona, mentre sperimenta l'angoscia dell'orfanità: ?ma io, a chi appartengo?'
Anche i farisei legalisti, senza rendersene conto, con la loro ipocrisia, terrorizzata dalla paura di dover abbandonare le false sicurezze e di fare brutta figura, nascondono dietro la loro domanda trabocchetto l'urlo di ogni figlio: ?ma noi, a chi apparteniamo?'. Siamo proprietà di un Cesare di turno, di una moda di passaggio, di una propaganda martellante, di una formalità burocratica, di una passione travolgente, di una corsa al successo... Oppure, Signore, siamo tuoi?
A chi appartengo? A chi apparteniamo? Il coraggio di porsi questo quesito, che ci porta sull'orlo del precipizio del nulla, per trovarvi delle braccia ad attenderci dall'eternità, è il vero cammino verso la responsabilità per le cose del mondo. Significa accettare la sfida della libertà, che non è mai autonomia svincolata dai rapporti, bensì piuttosto ardito abbandono a un legame che ci precede, ci accompagna, ci avvolge, ci sospinge.
Nel rischiare questo passo, che trasforma ogni cosa in un velo da togliere, in una traccia da riconoscere, in un frammento dell'Infinito, possiamo sentire risuonare intense e radicali le splendide parole di san Paolo: ?Tutto è vostro. Ma voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio' (1 Cor 3,23).
Omelia di don Luca Garbinetto
Liturgia e Liturgia della Parola della XXIX Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 19 ottobre 2014
tratto da www.lachiesa.it