7 settembre 2014 - XXIII Domenica del Tempo Ordinario: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro

News del 02/09/2014 Torna all'elenco delle news

La Liturgia della domenica XXIII del tempo ordinario ci propone la lettura di Matt. 18,15-20, un brano del "discorso sulla vita della Chiesa". Purtroppo la lettura liturgica continuata del Vangelo di Matteo omette tutto il cap.17 che è molto importante nel cammino che Gesù sta compiendo con i suoi discepoli, con Pietro in particolare e con noi, oggi: la Trasfigurazione è l'esperienza vissuta da Gesù nella quale introduce i discepoli nel cuore del suo mistero, che è il centro della rivelazione cristiana: l'umanità di Gesù risplende della gloria di Dio, nella fragilità della carne è presente l'infinito della divinità. E' Gesù che invita ancora Pietro in particolare, ad entrare nella fede che ha professato: Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, ma occorre che entri veramente in ciò che "il Padre gli ha rivelato", non riporti tutto alla razionalità umana, bisogna che impari a vedere Dio nella carne di Gesù, Dio che si inabissa nella debolezza umana per fare dell'umanità il luogo della divinità. Per questo Matt.17,23 ripropone l'annuncio della passione e in questa logica nei vv.24-27, in un brano che è per noi di grandissima attualità, Gesù pagando con Pietro il tributo al tempio, indica alla Chiesa la via per essere immersa nel mondo, per vivere l'esperienza di Dio restando dentro la storia.

Matt.18 contiene il quarto dei grandi discorsi di Gesù che hanno come unico argomento il "Regno dei cieli", nucleo centrale del suo messaggio. Dopo aver insistito sulla formazione dei discepoli e di Pietro in particolare, Gesù, indica quali debbano essere i rapporti tra i discepoli nella comunità ("la Chiesa"), forma di vita che logicamente assume la relazione fraterna sperimentata da loro.

Molto opportunamente la Liturgia di questa domenica ci fa leggere come seconda lettura, il brano della lettera ai Romani 13, 8-10: "Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole: chi ama l'altro, i ha dato compimento alla Legge. Infatti.ogni comandamento si ricapitola in questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L'amore non fa male al prossimo: pienezza della Legge è l'amore". In questa ottica che comprendere il cap.18 di Matteo: l'esistenza cristiana si riassume nell'amore. Anche Giovanni rivela: Dio è Amore perché Gesù ci ha mostrato che cosa è l'Amore con il quale il Padre ama il Figlio e attraverso il Figlio ama l'umanità. la Croce è la rivelazione piena dell'amore di cui Cristo risorto vive vivificando l'umanità della vita nuova di Dio. E ancora S.Paolo, nella 2 Cor.5,14 ci ricorda: "L'amore di Cristo ci possiede.poiché egli è morto per tutti perché quelli che vivono, non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risorto per loro.Se uno è in Cristo è una nuova creatura, le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove".

Quando Matteo parla della comunità ("la chiesa") come "forma" della vita cristiana, ci invita precisamente ad entrare in questa esperienza: in Cristo c'è una creazione nuova, le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove. La comunità, manifestazione concreta della comunione che Cristo risorto genera, è la "cosa nuova" che prende vita in noi e che abbiamo sotto i nostri occhi.

La comunità di cui parla Matteo, non è frutto degli sforzi umani, ma è generata dall'amore per cui Cristo è morto: è un dono che viene dal cuore del Padre che donando il proprio Figlio realizza il suo progetto, di fare della creazione una unità nell'Amore. Per questo la comunità è anzitutto un fatto di fede: credere la "comunità" (la Chiesa) significa credere l'amore che Dio ha per noi, per fare di noi dei figli suoi e quindi fratelli tra noi. Costruire la comunità, di conseguenza, non è principalmente un impegno etico, ma è una risposta di fede a ciò che Cristo opera in noi, è una risposta d'amore all'amore che lui ha per noi: Cristo cambia le nostre relazioni con Dio e con gli altri; Dio diventa il nostro Padre e gli altri nostri fratelli. Solo Cristo crea in noi l'atteggiamento autentico per entrare in un rapporto vero con gli altri, aprendoci così la via per una relazione nuova con Dio: amare Dio significa accettare in ogni momento di essere già amati da Lui e di riproporre nella nostra vita la stessa proposta di gratuità di amore, di amicizia verso gli altri. La gratuità la cui fonte è Dio, genera sempre nuova gratuità: e nasce così un tessuto nuovo di relazioni interpersonali che ci avvicina al "regno dei cieli" nel quale non c'è desiderio di possesso, violenza, prepotenza, aggressione.

Per ben due volte nel nostro brano Gesù usa l'espressione: "In verità vi dico." che significa che egli sta rivelando qualcosa del mistero di Dio. Introdurre sulla terra un'atmosfera di vita senza ipocrisia, libera, sciolta, essere concordi di fronte a Dio, è il segno che Cristo risorto è con noi e fa di noi la sua comunità.

Matteo, quando scrive, ha di fronte la sua comunità, per lei attualizza le parole di Gesù, ad essa propone la esperienza meravigliosa della fede, diventare cioè il luogo che sulla terra rende visibile il mistero dell'Amore che è Dio. Ma la bellezza del Vangelo è il suo realismo: il Vangelo non fa "teoria", mostra la verità della presenza di Dio nell'uomo, nella sua fragilità, nel suo peccato. La comunità è il luogo nel quale impariamo a vivere l'amore di Dio che scende nella nostra fragilità. Accogliere vicendevolmente la fragilità, non nasconderla mettendo maschere, accogliere i "piccoli", accettare di essere noi "piccoli", fare della accoglienza vera, vicendevole, il normale metodo della vita della comunità, è la via normale per non impedire all'amore di Dio di mostrare tutta la sua forza.

Matteo ha di fronte a sé una comunità che comincia a darsi una struttura: le relazioni diventano "sociali", "economiche", "gerarchiche". La preoccupazione di Matteo è di mostrare che le strutture se da una parte sono necessarie, dall'altra non possono esaurire l'amore: le regole della convivenza non possono sostituirsi alla "libertà" dell'amore.

Come comportarsi in una comunità di persone reali che credono l'Amore e che rimangono persone fragili, peccatrici? Matteo indica le regole di comportamento: tra persone che si amano, non ci si nasconde, non ci si evita, non c'è una relazione falsificata. "Se il tuo fratello pecca, parla tra te e lui.": è una trafila di comportamenti fatti di verità. Ma alla fine: "se non ascolterà, sia per te come il pagano e il pubblicano" che non vuol dire "escludilo, allontanalo, scomunicalo.", anzi.Gesù è sempre in cerca del pagano e del pubblicano: Gesù scandalizza gli scribi e i farisei perché accoglie i peccatori e mangia con loro. La meraviglia della comunità cristiana è di essere il luogo dell'infinita, incontenibile forza dell'amore gratuito di Dio: ha bisogno dell'etica, ma non si rinchiude nei suoi confini, ha bisogno di regole ma non dimentica che l'amore è il compimento della legge, ha bisogno di "autorità", ma a condizione che non si faccia servire ma che serva, che come Cristo doni la vita perché la comunità viva.

Omelia di mons. Gianfranco Poma

 

Il 'noi', principio di vita

Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, tu va'... Queste parole tracciano le regole di base per la convivenza fraterna. La prima: se qualcuno ti ferisce, tu non chiudere la comunicazione, non lasciare che l'offesa occupi tutta la scena, non metterti in atteggiamento di vittima o di sudditanza di fronte al male - questo lo renderebbe più forte -, ma fa tu il primo passo, riapri tu il dialogo. È il primo modo per de-creare il male, per esserne liberati.

Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello.

Una espressione inusuale e commovente: «guadagnare» un uomo, «acquistare» un fratello, arricchirsi di persone. Il vero guadagno della mia vita corrisponde alle relazioni buone che ho costruito. Ogni persona vale quanto valgono i suoi amori e le sue amicizie. Una comunità si misura dalla qualità dei rapporti umani che si sono instaurati.

Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Senza l'altro l'uomo non è uomo. Il Vangelo ci chiama a pensare sempre in termini di «noi».

Tutto quello che legherete sulla terra... Il potere di sciogliere e legare non ha nulla di giuridico, consiste nel mandato fondamentale di tessere nel mondo strutture di riconciliazione: ciò che avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò che avrete liberato attorno a voi, di energie, di vita, di audacia e sorrisi, non sarà più dimenticato, è storia santa.

Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre. Nel Vangelo di oggi un crescendo di comunità. Fino alla affermazione ultima: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.

Non semplicemente nell'io, non semplicemente nel tu, il Signore sta tra l'io e il tu, nel legame. In principio ad ogni vita, il legame, come nella stessa Trinità.

La costruzione del mondo nuovo inizia dai mattoni elementari io-tu, dalle relazioni quotidiane. Ma c'è un terzo tra i due, un terzo tra me e te, il cui nome è Amore: collante delle vite, forza di coesione degli atomi (Turoldo), unità dei mondi.

È tra noi, ad una condizione: che siamo riuniti nel suo nome. Non per interesse, non per superficialità, non per caso, ma nel suo nome: amando ciò che lui amava, preferendo coloro che lui preferiva, sognando il suo sogno di un mondo fatto di fratelli, dove il giusto e il peccatore, il violento e l'inerme si tengono per mano; dove Abele diventa capace della più grande follia, la divina follia di prendersi cura di Caino ( se tuo fratello ti ha fatto del male, tu và... ), per essere liberi dal male come l'unico libero. Come potremmo non essere liberi se fra noi è la Libertà stessa?

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Correzione sinonimo di carità

Gesù in molte pagine si mostra come il Riconciliatore. Non pochi suoi interventi tendono a ripristinare il rapporto infranto fra l'uomo e il Padre e lui stesso si fa Mediatore fra Dio e gli uomini e nella croce realizza la piena riconciliazione riscattando i nostri peccati. Ma collegata a questa vi è anche la riconciliazione, da lui operata, degli uomini fra di loro, evinta spesso dalla pedagogia del perdono, dell'amore verso i nemici e della necessità di far pace con i nostri avversari prima di depositare l'offerta al tempio. La riconciliazione fra uomo e uomo, la pacifica convivenza e il recupero della fraternità infranta dalle divisioni e dai malintesi sono anzi un aspetto non trascurabile della carità insegnata e voluta dal Figlio di Dio e pertanto su questo tema non sarà mai abbastanza che ci soffermiamo. Chiarire gli equivoci, incontraci superando quello che ci ha divisi, mostrarsi disponibili al dialogo e all'accettazione reciproca con l'umiltà di riconoscere ciascuno i propri errori e le proprie manchevolezze è alla base di una retta convivenza e pertanto non è fuori luogo che la carità sia sinonimo di riconciliazione soprattutto nella correzione fraterna.

Si tratta di un aspetto spesso preso in poca considerazione, ma che di fatto sta alla base di una pacifica convivenza umana in un gruppo o in un sistema sociale: correggersi gli uni gli altri negli errori e nelle defezioni e accettare da parte nostra che altri ci correggano ammettendo umilmente i nostri sbagli raggiunge obiettivi di solidità nella fraternità. Del resto occorre anche considerare che in una Chiesa "santa ma peccatrice" nessuno è esente da errori e imperfezioni, per cui andrebbe svolta con maggiore frequenza l'autocritica e la correzione degli altri.

La liturgia è abbastanza lapidaria già nella Prima Lettura, nella quale Ezechiele ammonisce che ciascun uomo potrebbe essere responsabile del male che commettono altri, giacché mancare di richiamare alla rettitudine il fratello che sbaglia equivale a rendersi complice del suo peccato. Quando si omette di ammonire il reprobo affinché torni sulla retta strada, si contribuisce a fomentare in lui sempre più propensione all'errore, anche perché lo si illude di trovarsi nel giusto o eventualmente si fa in modo che resti convinto erroneamente di aver agito bene. E come può allora Dio non imputare anche noi una parte di colpa per l'errore che avrà commesso? Nella nostra società, sebbene una certa attitudine alla viltà ce lo faccia trascurare, siamo tutti responsabili delle ingiustizie e del male che viene commesso da coloro che chiamiamo "criminali" o delinquenti quando nulla facciamo per impedire la loro opera, ad esempio denunciandoli con coraggio a chi di dovere. Siamo tutti quanti responsabili di un crimine o di un misfatto allorquando mostriamo assoluta indifferenza o chiusura omertosa. Ma soprattutto ciascuno di noi non può non considerarsi complice degli errori altrui quando omette di ricorrere alla correzione fraterna, cioè a quell'atteggiamento di carità e di sincera disposizione con il quale, senza voler in alcun modo prevaricare su di lui, si richiama il fratello al giusto comportamento quando questi abbia sbagliato. Correggere fraternamente chi sbaglia è un sincero atto di amore nei suoi confronti mancando il quale si manca inesorabilmente verso lo stesso fratello e nei confronti della società intera perché la persistenza in un determinato errore non può che comportare disagio alla convivenza di tutti. E' moralmente doveroso pertanto richiamare quanti sono nell'errore senza tuttavia che ci si erga a loro giudici o a loro maestri, quasi che noi siamo solo in grado di insegnare: la correzione non va eseguita infatti con estrema irruenza o con atti umilianti nei confronti di chi sbaglia, ma deve essere semplicemente un atto di amore e di sollecitudine atto a rendere consapevole l'altro del proprio errore attraverso argomenti convincenti. Chi riceve la correzione deve infatti sentirsi a proprio agio e avvertire la certezza che il rimprovero subito non è che un atto di amore nei suoi confronti e la correzione fraterna non deve avere assolutamente fattezze di predominio o di superiorità.

Nella pedagogia di Gesù intorno a questo aspetto importantissimo della vita di fraternità, si descrive l'attitudine di colui che corregge, l'attitudine ideale di chi viene corretto, la responsabilità del singolo fratello nell'eseguire la correzione fraterna e da ultimo il dovere che spetta in tal senso all'intera comunità. In secondo luogo, si considerano tutte le possibili reazioni dell'educando e il ricorso alla testimonianza di due o tre persone, già ravvisabile nella prescrizione del Deuteronomio.

La correzione non è solamente una responsabilità del singolo soggetto, ma richiama anche l'intero gruppo e la società intera, doverosa di recuperare con tutti i mezzi il fratello che sbaglia, anche ricorrendo secondo le necessità alle riprovazioni e alle punizioni appropriate. Ecco perché Gesù offre orientamenti concreti di emendazione del reo, che riguardano l'intervento di tutti e di ciascuno e che coinvolgano anche l'intera comunità. Se un fratello è in errore è infatti preoccupazione di tutti che egli si ravveda, e anche l'intervento della Chiesa per intero, quando necessario, può essere risolutivo. Ma Gesù prevede sapientemente anche che il fratello possa non mutare vita e persistere nell'errore: tutto dipende dal suo grado di giudizio, dalla virtù e dall'esercizio della sua libertà. Fallita quindi ogni possibilità di emendazione nei suoi confronti, dipenderà solamente da lui il suo destino di appartenenza alla comunità, sarà problema suo rispondere dei propri errori davanti a se stesso e davanti agli altri e poiché+ avrà fatto la sua scelta libera e consapevole da parte nostra non si potrà che "considerarlo un pubblicano" ostinato a rifiutare un nostro tentativo di emendamento e per ciò stesso un nostro atto di amore.

Dice la Lettera agli Ebrei: "È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?.... Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati (Eb 12, 7. 10 - 12).

Chiudere gli occhi sugli errori degli altri per una pura forma di "rispetto" o peggio ancora omettere di correggere chi sbaglia per poi diffamarlo alle spalle con insinuazioni o pettegolezzi è indice di mancato amore nei confronti della sua persona e svilimento della sua stessa dignità. Del quale Dio non potrà non chiederci conto.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 7 settembre 2014

tratto da www.lachiesa.it