6 aprile 2014 - V Domenica di Quaresima: noi, come Lazzaro, chiamati a risorgere, nel presente
News del 04/04/2014 Torna all'elenco delle news
Il cap.11 del Vangelo di Giovanni ci presenta l'incontro di Gesù con la famiglia "che egli amava", di Lazzaro, Marta e Maria, in un momento drammatico della loro vita e pure della sua.
Siamo alla fine della prima parte del Vangelo: poi egli ci mostrerà fino a che punto egli stesso si fa compagno della nostra oscurità, perché appaia la gloria di Dio.
Qui, facendoci lettori di questa pagina, identificandoci con Marta, Maria e pure con Lazzaro, siamo invitati a percorrere fino in fondo la nostra umanità, a lasciar emergere le domande più drammatiche, a sperimentare persino la morte, ascoltando la voce di Colui che con il suo Amore non ci lascia mai soli e ci dice: "Io sono... Tu credi?". E ci dona la "vita": noi vogliamo i miracoli, Lui ci dona se stesso, l'Amore, la Vita, Dio.
Nel momento nel quale crescono le minacce delle autorità giudaiche, Gesù si ritira al di là del Giordano, dove Giovanni battezza. Lì lo raggiunge il messaggio delle due sorelle: "Signore, colui che tu ami è malato". "Signore" è il modo con cui nel Vangelo di Giovanni ci si rivolge a Dio: le due sorelle esprimono la loro fede in Gesù. Non fanno il nome di Lazzaro, dicono: "colui che tu ami, è malato". La loro è una preghiera fiduciosa, ma al tempo stessa piena di angoscia: "Se tu sei il "Signore", perché "colui che tu ami" soffre?" Con la reazione di Gesù, il Vangelo ci rivela nello stile dell'ambiguità tipica di Giovanni, il senso nuovo che con Lui assume la malattia, la fragilità dell'uomo: "Proprio la debolezza non è finalizzata alla morte, ma è per la gloria di Dio, perché venga glorificato il Figlio di Dio attraverso di essa". È la grande rivelazione di Gesù: nella fragilità c'è Dio. Gesù mostrerà che cos'è l'Amore per colui che egli ama. E questo prepara la pienezza della rivelazione: proprio nella sua morte apparirà la gloria di Dio. Noi vorremmo che non ci fosse la fragilità, la malattia, il dolore, la morte: egli rivela che Dio, l'Amore, sta dentro anche la morte per riempirla di una pienezza di vita che la rende, già, vita eterna.
"Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro", ribadisce Giovanni: davvero Gesù li ama. Occorrerà lasciarsi amare, non pretendere l'amore. Per questo Gesù attende due giorni prima di muoversi: è Lui che liberamente conduce gli eventi. È Lui che ritorna dentro una situazione che, come temono i discepoli, diventerà di morte anche per Lui, ma l'Amore è la forza di Dio che, misteriosamente, vince la morte.
"Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo", dice Gesù. E Lui parlava della morte: da "malato", adesso "il nostro amico" è "morto". Tutto è "perché voi crediate": così Giovanni ci avverte che tutto è "segno" per il cammino della fede dei discepoli (e nostra) che come mostra Tommaso, è ancora da compiere.
Lazzaro ormai "da quattro giorni è nel sepolcro", tanto che "molti Giudei erano venuti a consolare Marta e Maria per il fratello".
Adesso Gesù viene. Marta, abbandonando il gruppo di coloro che sono venuti per consolare lei e la sorella, gli va incontro. Chi è Gesù per lei? "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chieda, Dio te la concederà". Per Marta Gesù non è un guaritore come tanti altri, ma un uomo che per la sua relazione particolare con Dio, può veder esaudita la sua preghiera. Comincia così un dialogo tra Marta e Gesù che la conduce ad oltrepassare la concezione ebraica della fede nella risurrezione dei morti alla fine dei tempi, fino a fare di lei la figura esemplare di chi crede in Lui.
"Io sono...": la risurrezione non è collocata in un lontano futuro, ma è qui e ora, nella fede in Lui, nell'incontro personale con Lui.
"Credi questo?" Adesso Marta può rispondere con un atto di fede che fa di lei la perfetta credente:
"Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, colui che viene nel mondo!". Marta crede che il Signore è l'irruzione nel mondo della vita di Dio: la fede in Lui la rende partecipe, già adesso, della vita di Dio, che la morte non può distruggere, ma che da un senso nuovo all'esistenza umana.
Adesso Marta si ritrae, invitando Maria ad accostarsi a Gesù: "È qui e ti chiama". A confronto dell'incontro con Marta, con la confessione di fede che rappresenta il punto più alto dell'evento, quello con Maria prostrata ai piedi di Gesù, in pianto, circondata dai vicini, dai Giudei, mette in evidenza la drammaticità del dolore che la fede non elimina. Anche Maria, amata da Gesù, crede in Lui, eppure piange. Tutti piangono, anche Gesù piange: in modo nuovo (forse unico), Giovanni ci fa entrare profondamente nel mistero del Cristo, figlio di Dio, venuto in questo mondo. Se l'incontro con Marta rivela la sua dimensione divina, l'incontro con Maria quella umana. Gesù piange con Maria e con quelli che erano venuti con lei: "Se tu fossi stato qui..." "Guarda come lo amava!" Mistero dell'Amore (Dio) che per un attimo appare impotente di fronte alla morte: proprio Marta, la credente dice: "ormai puzza: già da quattro giorni è lì". Ma poi Gesù "si commosse nello spirito e scosse se stesso": l'Amore (Dio) vince la morte.
Si commosse profondamente. Gesù si rivolge proprio a Marta, la credente: "Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?". Se prima ha fatto la professione di fede, adesso è chiamata a credere in Lui, inviato di Dio in questo mondo drammaticamente fragile, con tutta se stessa. E Gesù prega: "Ti ringrazio, Padre..." e con la sua preghiera Gesù proclama che tutto è "perché credano che tu mi hai mandato". Tutto è per "la fede" di coloro che si sono mossi attorno a Lazzaro, l' "amico" di Gesù, il "nostro fratello", che è "malato", "morto", "sepolto", per la fede di Marta, Maria, coloro che piangono con loro: oggi tutto è per la nostra fede. Adesso Gesù grida con voce forte: "Lazzaro, vieni fuori!". Per chi grida Gesù? Per Lazzaro, o per Marta, Maria...per noi che vorremmo che "colui che ci ama" fosse sempre presente ad impedire il dolore e la morte, perché invece, credendo in Lui cominciamo a vivere con Lui che soffre, piange, muore con noi, una vita piena d'Amore che non finisce neanche con la morte? Ecco: il problema è la fede che ci fa entrare, già, in una vita che è talmente grande, divina, che è già eterna. La fede in Gesù, Dio con noi, è la nascita alla pienezza della vita: credere significa uscire da una umanità chiusa, come una tomba che ci impedisce di vivere. Al grido di Gesù, al fremito del suo Amore che lo scuote profondamente, "uscì, colui che era morto, legato ai piedi e alle mani con bende, e con il viso avvolto da un sudario". Lazzaro "uscì": uscire, è l'inizio della vita. E l'invito: "Liberatelo e lasciatelo andare", è rivolto a tutta la comunità: non stare fermi, schiacciati dal dolore senza speranza, di fronte al dono di una vita infinita, essere costruttori di libertà. Gesù è tutto questo: Lui stesso cammina dentro il dolore, la morte, con l'Amore del Padre, che lo fa "uscire" dal sepolcro per liberare il mondo.
Nell' "amico" Lazzaro, che rimane avvolto nel suo silenzio, è impresso il volto di ciascuno di noi: restiamo chiusi in noi stessi, in attesa di un Dio che faccia come noi vorremmo, o crediamo e gustiamo l'Amore di Colui che ci dona se stesso per una vita infinita? E come comunità di "credenti" viviamo l'esperienza di Colui che ci invita ad essere persone che si aiutano a far cadere le bende dai nostri piedi, dalle nostre mani, a liberare il nostro volto, per essere persone che camminano nella libertà?
Di fronte a Gesù che grida, chiamando alla vita, si delinea drammaticamente un mondo che decide di condannarlo a morte: la fede nel Figlio di Dio "che viene nel mondo", è una sfida e una scelta coraggiosa di libertà.
Omelia di mons. Gianfranco Poma (Io credo, Signore: tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene in questo mondo)
Le lacrime di Dio, fonte d'amore
Nella vita degli amici di Gesù irrompono la morte e il miracolo. Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. Dolcemente, come si fa con chi amiamo, Marta rimprovera l'amico: va diritta al cuore di Gesù, e Gesù va diritto al cuore delle cose: Tuo fratello risorgerà. E Marta: so che risorgerà nell'ultimo giorno. Ma quel giorno è così lontano dal mio desiderio e dal mio dolore.
Marta parla al futuro: So che risorgerà, Gesù parla al presente: Io sono, e incide due parole tra le più importanti del Vangelo: Io sono la risurrezione e la vita.
Come alla samaritana è ancora a una donna che Gesù regala parole che sono al centro di tutta la fede: Io ci sono e sono la vita! Sono colui che adesso, qui, fa rinascere e ripartire da tutte le cadute, gli inverni, gli abbandoni.
Notiamo la successione delle due parole «Io sono la Risurrezione e la vita». Prima viene la Risurrezione, poi la vita, e non viceversa. Risurrezione è un'esperienza che interessa prima di tutto il nostro presente e non solo il nostro futuro.
A risorgere sono chiamati i vivi, noi, prima che i morti: a svegliarci e rialzarci da tutte le vite spente e immobili, addormentate e inutili; a fare cose che rimangano per sempre: Da morti che eravamo ci ha fatti rivivere con Cristo, con lui risuscitati (Efesini 2,5-6).
La vita avanza di risurrezione in risurrezione, verso l'uomo nuovo, verso la statura di Cristo, verso la sua misura. O uomo prendi coscienza della tua dignità regale, Dio in te... (Gregorio di Nissa), che ti trasforma, e fa la vita più salda, amorevole, generosa, sorridente, creativa, libera. Eterna. Che rotola armoniosa nelle mani di Dio.
Gesù si commosse profondamente e scoppiò in pianto. Dissero allora: guarda come lo amava! Piange e le sue lacrime sono la sua dichiarazione d'amore a Lazzaro e alle sorelle. Dio piange e piange per me: sono io Lazzaro, io sono l'amico, malato e amato, che Gesù non accetta gli sia strappato via. Dalle lacrime di Dio impariamo il cuore di Dio.
Il perché della nostra risurrezione sta in questo amore fino al pianto. Risorgiamo adesso, risorgeremo dopo la morte, perché amati.
Il vero nemico della morte non è la vita ma l'amore.
Forte come la morte è l'amore, dice il Cantico. Ma l'amore di Dio è più forte della morte. Se il nome di Dio è amore, allora il suo nome è anche Risurrezione.
Lazzaro, vieni fuori! Liberatelo e lasciatelo andare.
Tre parole per risorgere, tre ordini che risuonano per me: esci, liberati e vai. Con passo libero e glorioso, per sentieri nel sole, in un mondo abitato ormai dalla più alta speranza: qualcuno è più forte della morte.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Ho amato, ho creduto, e ora vivo
La scorsa domenica, la Liturgia della Parola verteva intorno a due verbi: "vedere" e "credere". Due verbi molto cari a Giovanni, che trovano il culmine del loro significato nei racconti di Risurrezione, dove i discepoli Pietro, Giovanni e Maria di Magdala, credono nel Signore Risorto perché hanno visto i segni della sua resurrezione. Anche il cieco dalla nascita, guarito da Gesù, "vede" nuovamente la salvezza e la vita, e "crede" in Gesù.
Anche oggi abbiamo a che fare con il verbo "credere", e soprattutto ne abbiamo a che fare con un altro racconto di resurrezione, quella che Gesù compie verso un amico caro, Lazzaro. Ma qui non è tanto il ritorno alla vita di Lazzaro che deve colpire la nostra attenzione: è una resurrezione tanto anomala, quella di Lazzaro, che nemmeno pare tale. Lazzaro, infatti, anche dopo che Gesù lo ha fatto uscire dalla tomba, non riacquista la sua identità, perché continua ad essere chiamato "il morto" (Lazzaro, quello con un nome, è già con il Padre, nel seno di Abramo, come un altro Lazzaro, un povero...); continua a rimanere "legato mani e piedi" (per cui, come avrà fatto a camminare e a uscire dal sepolcro?), "il viso avvolto da un sudario" (che bisogno ha, di vedere?), e se potrà essere liberato e lasciato andare è perché interverrà la comunità, su invito del Maestro.
È la comunità che lo libera, perché in realtà è la comunità che fa il percorso della vita, è la comunità che risuscita; è la comunità - e non Lazzaro - che percorre il cammino dalle tenebre alla luce, dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita. Una comunità - la Chiesa - composta di quattro categorie di persone, non certo tutte credenti e innamorate di Dio allo stesso modo: Marta, Maria, i discepoli di Gesù, e i Giudei. Ci sono persone che già credono (Marta e Maria), ma che hanno bisogno di tornare a sperare in quel Dio della vita che le aveva lasciate sole ("Se tu fossi stato qui..."); ci sono persone che hanno bisogno di conferme, perché su questo Maestro hanno investito molto, e lui lo sa bene ("Io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate"); e persone che proprio non credono, anzi, si arrabbiano con lui ("Lui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che costui non morisse?") o tutt'al più si meravigliano dei suoi sentimenti ("Guarda come lo amava!").
Tutto questo cammino parte da lontano: dipende dal rapporto che ognuno dei presenti ha con Gesù. I Giudei lo odiavano ("Poco fa cercavano di lapidarti", gli viene detto), i discepoli lo stimavano, Marta e Maria - e Lazzaro, quand'era in vita - lo amavano molto: è l'amore che hai per lui che ti porta a credere che lui è il Figlio di Dio. E quanto più lo ami, tanto prima lo riconosci (cfr. 1 Gv 4,8), senza bisogno di gesti eclatanti, di favori, di miracoli enormi come la risurrezione di un cadavere freddo di quattro giorni.
È la nostra relazione con Dio che fa di noi un popolo di credenti. Lo è stato per la donna di Samaria, che si reca al pozzo forse per trovare il settimo uomo della sua vita e invece incontra il Dio che salva "in spirito e verità"; lo è stato per il cieco dalla nascita, che è salvato "dal fango" - come una nuova creazione - e dopo aver visto, crede; lo è per Marta, Maria e Lazzaro, che lo amano da sempre, credono in lui nonostante la morte, e addirittura la vincono. Questo Dio che di fronte alla morte e al dolore dell'umanità non solo non chiude gli occhi, ma addirittura se li riempie di lacrime, perché piange e ne condivide la sorte, è un Dio che preferisce non crearci illusioni. Infatti, non elimina la morte dalla nostra pesante e faticosa quotidianità, ma viene a dirci che lui non ci abbandona: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno".
Morirà, certo, come ogni cosa che finisce. Ma non sarà "in eterno", non sarà "per sempre", non sarà "l'ultima parola". L'ultima parola sulla storia, sulla nostra storia e su quella dell'umanità, ce l'ha Dio. Ed è la parola "Vita".
Mettiamoci in cammino verso Gerusalemme, senza ancora nulla di chiaro nella testa, e lasciamo risuonare nel nostro cuore le domande di Gesù a Marta: "Credi questo?...Non ti ho forse detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?".
Omelia di don Alberto Brignoli
Liturgia e Liturgia della Parola della V Domenica di Quaresima (Anno A) 6 aprile 2014