L’Amore del Pastore

News del 24/04/2010 Torna all'elenco delle news

"Lo stupore per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo, imprime alla nostra esistenza un dinamismo nuovo, impegnandoci a essere testimoni del Suo amore. E diveniamo testimoni, quando, attraverso le nostre azioni, parole, modo di essere, un ALTRO appare e si comunica. Si può dire che la testimonianza è il mezzo con cui la verità dell'amore di Dio raggiunge l'uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale. Nella testimonianza Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell'uomo".

(Santo Padre, Benedetto XVI, Sacramentum veritatis, n. 85)

In questa IV Domenica di Pasqua (Anno C) denominata del "Buon Pastore" il Vangelo ci presenta un brano che con due pennellate dipinge la situazione degli uomini `lontani da Dio', non si sa se per scelta o per ignoranza, e la vicinanza di Dio, che dà davvero un grande respiro di speranza anche a noi, oggi, a cui sembra che troppi lascino la Chiesa, avventurandosi in un mondo che non può che fare del male.
In un'altra parte, il Vangelo definisce poi 'cattivi pastori, mercenari', coloro a cui nulla importa della felicità del 'gregge' loro affidato. È la tragedia, non solo di oggi, ma di tutti i tempi.
"Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità
Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: 'La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe
". (Mt. 9, 35-38)
In questo piccolo racconto c'è soprattutto Lui, Gesù, mandato dal Padre a dare la vita, perché noi l'avessimo e in abbondanza. Si avvicinava a tutti, con la cura di un padre, di un fratello: li guardava con lo sguardo di uno che ama senza limiti, gratuitamente, liberamente ed ha nel cuore non la volontà di morte del peccatore, ma la sua salvezza.
Voleva guardare in faccia le ferite di tutti per guarirle: 'Non sono venuto per i sani, ma per i malati', dirà. Non accetta facilmente che qualcuno si perda e, quando qualche 'pecora', per dabbenaggine o per altre ragioni, si allontana, Gesù stesso racconta come vada in cerca di lei, senza curarsi dei pericoli, della fatica, della sofferenza: l'importante è ritrovare chi è stato catturato dai 'mercenari', che per nulla si curano della sua felicità e della sua vita. Come succede oggi.
Sono tanti davvero i mercenari, ossia quelli che catturano con le lusinghe – la ricchezza, il prestigio, il successo, il piacere, il potere ... - e tutti sappiamo come a costoro nulla interessi della nostra felicità vera, della nostra sofferenza o insoddisfazione. Basta osservare quanti giovani, attratti dalle discoteche e dalle droghe, sono poi vittime delle loro stesse scelte.
Nello sguardo di Gesù c'è lo sguardo di Dio: uno sguardo incredibilmente e meravigliosamente pietoso, `ebbe compassione'. Quelle folle che Lo cercavano e seguivano, come per aggrapparsi all'ultima speranza, attendendo da Lui chissà che cosa, apparivano 'stanche e sfinite'. Due aggettivi che danno la piena misura dí un uomo che è giunto ad un punto morto: non ha più nessuno da cui sperare giustizia, amore, verità; non ha più chi gli dia ancora la voglia di 'camminare' e, soprattutto, un senso e un gusto al cammino che è costretto a compiere.
Gente sferzata da tante ingiustizie, che l'uomo stesso, ripiegato su se stesso, inventa giorno per giorno, cercando solo vie per affermarsi, magari calpestando gli altri. Sono le stesse folle che incontriamo ancora oggi: un triste spettacolo, che penetra fino in fondo al cuore, come ci riguardasse da vicino, come sofferenza nostra, e non ci dà pace.
A questa umanità in cerca di pastore, Gesù indica la strada: 'Pregate il padrone della messe, che mandi operai nella sua messe'.
E questi operai che Gesù manda siamo noi, sacerdoti, vescovi, chiamati giustamente, sull'esempio di Gesù, 'pastori'.
Oggi mi ritrovo ad affermare la bellezza dell'essere stato scelto come 'pastore', e a non avere parole adeguate per ringraziare Dio e tutti coloro che ho guidato nei 'pascoli eterni'.
A chi, forse chiamato, ha tanta difficoltà nell'accogliere la vocazione del Signore, vorrei trasmettere la bellezza e l'immensa gioia che viene dal sapere di avere dato tutto, ma proprio tutto, per la salvezza. Scriveva il nostro caro Paolo VI, davvero esperto nell'amore del sacerdote:
"E' il giorno dell'amore questo. Tutta la nostra iniziazione sacerdotale si è svolta proprio su questo tema: Ti amerò, Ti amerò per tutta la vita. Il mio cuore è tuo, quello ti dono, di comprensione, di emozione, di affetto, tutto è tuo, o Signore. Io sono tuo. Abbiamo detto questo nel giorno in cui abbiamo ricevuto il nostro sacerdozio. Lo diciamo ogni giorno.
Nella stessa misura? Con la stessa capacità di dono, di sacrificio? Con la stessa pienezza? O è passata sopra di noi l'usura del tempo? Le cose, nel tempo, diminuiscono, si affievoliscono; non siamo capaci, noi, di perdurante intensità. Di fedeltà sì, io spero che lo siamo tutti, ma di intensità, deboli come siamo, probabilmente no; ci lasciamo a volte andare, e diviene complice forse di questa nostra debolezza, l'abitudine. L'abitudine toglie l'emozione, la meraviglia dei doni che Dio ci ha dato con tanta effusione per farne dono ai fratelli nel nostro immenso esercizio che ci fa esaltare di gioia e di umiltà ogni volta ne siamo catturati, e così ciò che prima ci dava tanta gioia ora a volta passa senza emozioni sulle nostre labbra.
Sì, abbiamo tante cose da fare alla fine. E queste 'cose', se da un lato sono sempre amore, prove di servizio e fedeltà a Gesù, rischiano di essere esteriorità. Ma il focolare della nostra vita ha continuato, per fortuna, ad ardere, a brillare, a darci alimento per esercitare bene il nostro ministero; forse un po' di cenere si è adagiata sopra la brace infuocata. Ma dovremmo sempre ricordare le parole che Gesù disse ai suoi, ieri, e oggi a noi: 'Rimanete nel mio amore'. E risentiamo sempre quanto Gesù, dopo la grande debolezza mostrata durante l'arresto di Gesù, domandò a Pietro: `Mi ami tu?'. E che la nostra risposta sia come quella di Pietro, che intuendo forse la sua debolezza, confermò: 'Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene'. ..In fondo a Gesù diciamo oggi: 'Sono un tuo sacerdote, povero, debole, manchevole, ma sono tuo'." (11.4.1963)
È proprio vero, i fedeli che Dio ci dà da amare, vogliono vedere testimoniato sempre e in tutto il grande Amore, che diventa comunicare gioia evangelica, ottimismo, felicità di essere con Dio e nel Cuore di Dio, proprio attraverso il prete.

Testo di mons. Antonio Riboldi
 

Commento Giovanni 10,27-30

In quel giorno di sabato, nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, antica città situata nel cuore dell'Asia Minore (l'attuale Turchia), avvenne un fatto che non appartiene solo alle origini della storia della comunità cristiana, quando cioè la Chiesa uscì dall'ebraismo; a suo modo si ripete in ogni generazione. C'erano in quella sinagoga donne pie di alto rango e uomini abituati ad incontrarsi tra loro; era un gruppo ben formato e amalgamato, tutti credenti nell'unico Dio; cosa, ovviamente, bella e singolare in una terra di increduli e di pagani. In quella riunione di gente religiosa e credente entrarono Paolo e Barnaba e con loro "quasi tutta la città", desiderosa di ascoltare l'annuncio evangelico. "Quando videro quella moltitudine", scrive l'autore degli Atti, i giudei furono presi da gelosia e cominciarono a contraddire le parole di Paolo, bestemmiando.
La vicenda di Antiochia è un'ammonizione per i credenti e per la stessa comunità ecclesiale quando si sottolinea il proprio individualismo. Credere di conoscere già il Signore e di possederlo è contraddire il Vangelo, e al fondo, bestemmiarlo.
Il Vangelo richiede un ascolto continuo, come dice Gesù: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono". Essere fedeli al Signore vuol dire ascoltare la sua voce e seguirlo ogni giorno, ovunque egli ci conduce. E' l'esatto contrario dello stare seduti pigramente e orgogliosamente nella sinagoga di Antiochia. A chi lo ascolta e a chi lo segue (l'unico modo per seguirlo è ascoltarlo mentre parla e cammina per le vie del mondo) promette la vita eterna: nessuno dei suoi andrà perduto, dice Gesù. E aggiunge: "nessuno le rapirà dalla mia mano".
Si tratta di un pastore buono, forte e geloso delle sue pecore. La vita di quelli che ascoltano è nelle mani di Dio; mani che non dimenticano e che sanno sostenere sempre, come vediamo nell'immagine dell'Apocalisse. I credenti sono chiamati a collaborare con Dio per realizzare già oggi questa visione di comunione tra tutti. L'Apocalisse pertanto mostra l'esatto contrario di quello che accadde ad Antiochia di Pisidia, ove la predicazione ruppe i confini angusti di quelle persone religiose e si proiettò verso il vasto mondo degli uomini. Il Vangelo allarga il cuore di ogni credente perché scardina radicalmente l'individualismo. Nel cuore di ogni singolo membro di quella "moltitudine" di cui parla l'Apocalisse (ne fanno parte anche coloro che, senza saperlo, sono animati dallo spirito di Dio), si coglie il respiro universale che sorregge il cuore stesso del Buon Pastore. 

Testo di mons. Vincenzo Paglia
 

Nesso tra le letture

Il Buon Pastore! Questo è il simbolo che la liturgia di oggi mette in risalto. È il Buon Pastore, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (vangelo). È il Buon Pastore, che tutti vuole salvare, sia le pecore giudee come quelle pagane, ad a tutti offre la sua vita (prima lettura). È il Buon Pastore, che pasce le sue pecore non solo su questa terra, ma anche nel cielo, conducendole alle fonti di acque vive (seconda lettura).

Le mirabilia del Buon Pastore. Nella storia di Israele, si parla molto delle mirabilia Dei, dei grandi portenti che Dio fece in favore del suo popolo. È legittimo parlare anche delle mirabilia Boni Pastoris. Vediamone alcune che ci segnalano i testi liturgici.

Io conosco le mie pecore. Il carattere comunitario e sociale della fede, non sminuisce affatto il carattere personale della relazione del Buon Pastore con ciascuna delle sue pecore. Perché il conoscere, nella lingua ebraica, implica altresì l'amare, il desiderare il bene della persona, il sentire affetto per lei. Cioè, si può giungere a conoscere una persona soltanto nell'ambito della relazione intima e personale. Quando l'uomo è conosciuto in questo modo da Gesù Cristo, in virtù del carattere reciproco di ogni relazione personale, entra anche nel mondo dell'intimità di Gesù Cristo, lo ascolta con attenzione e lo segue con fedeltà, gioia e gratitudine. Nel vangelo di san Giovanni, d'altra parte, il conoscere si identifica quasi con il credere. Gesù Cristo ha fiducia, si fida delle sue pecore, perché le ama e si sente da esse amato. E, soprattutto, le pecore confidano in Gesù Cristo, e lo confessano come loro Salvatore e Signore.
 
Io do loro vita eterna. Il dono più grande che Dio ci ha concesso è quello della vita. Ma questa vita dura alcuni anni, e poi...regnerà la morte sull'uomo? Tornerà al nulla da cui Dio lo trasse creandolo? È una domanda che trova risposta in Cristo risorto. Egli è il Signore della vita, il Vivente. Essendo Signore della vita, può disporre di essa e darla a coloro che ama e che confidano in Lui. Cristo ci rende partecipi della sua stessa vita, quella che non è sottomessa al dominio della morte, la vita eterna. Nell'Apocalisse leggiamo: "L'Agnello (Cristo morto e risorto) che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita". La vita eterna è la stessa vita di Cristo, che è già presente in noi per mezzo del battesimo e della grazia, e che acquisterà forma piena nell'aldilà dell'esistenza terrena. Così come la vita terrena è un dono prezioso del Padre, la vita eterna è un dono stupendo di Cristo risorto. Nessuno può strapparmele. Nessun potere, umano, angelico, diabolico, è al di sopra del potere di Cristo risorto. Un potere che Cristo ha ricevuto dal Padre onnipotente. Voler strappare a Cristo le sue pecore, equivarrebbe a strapparle a Dio, il Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Qualcosa di assurdo! Gli uomini possono tagliare il filo di questa vita, ma non possono strappare dalle mani del Padre il disporre della vita eterna. Gli angeli, come ci insegna il catechismo, sono al servizio di Dio: "In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio" (CCC 329) e dell'uomo: "Dall'infanzia fino all'ora della morte, la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione" (CCC 336). Il demonio, infine, benché sia una creatura potente, non può strappare dalle mani di Cristo le sue pecore, perché "la potenza di Satana non è infinita" (CCC 395). Soltanto ed unicamente l'uomo, nella sua libertà, può sfuggire al gregge di Cristo e sottrarsi alle mani buone del Padre. Il testo degli Atti degli Apostoli dà fede di ciò: "I giudei contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando". Che potere tremendo quello della libertà, che può rendere inutili le mirabilia del Buon Pastore!

Non abbiate paura del Buon Pastore! Il mistero di Cristo oltrepassa la mente umana. Per questo motivo, il Nuovo Testamento ricorre a tante figure e simboli per esprimere qualcosa della sua infinita ricchezza. Si parla a noi di Cristo maestro e profeta, Dio e Signore, luce e vita, alfa e omega, Salvatore ed Emanuele, e così molti altri. Uno dei più dolci nomi di Cristo è quello di Bon Pastore. È un nome che piace molto ai bambini, e che non dispiace affatto agli adulti, perché l'allegoria del Buon Pastore nel vangelo di san Giovanni è l'equivalente della parabola del figliol prodigo nel vangelo di san Luca. Chi c'è che possa aver paura di Cristo, Buon Pastore, se l'unica cosa che cerca e alla quale si consacra è il nostro maggior bene? È vero che alcune verità della nostra fede possono sembrarci difficili, ma non aver paura delle difficoltà, il Buon Pastore ti aiuterà a comprenderle un poco di più, ad accettarle con amore e gioia, come un regalo magnifico, e soprattutto a viverle con passione e dedizione. Può essere che alcuni insegnamenti morali del cristianesimo siano costosi, duri, contro corrente, ma lo stesso Buon Pastore, che ti alimenta con queste verità, ti darà la forza per assimilarle e per metterle in pratica nella tua vita quotidiana. Può essere che qualche volta tu ti smarrisca o ti indebolisca, nel cammino della vita, ma non avere paura di tornare a Cristo, che egli ti porrà sulle sue spalle e sarà felice di averti recuperato. Non avere paura! Il Buon Pastore è disposto a tutto, a tutto, per amor tuo, per il tuo bene.

Il martirio possibile: dono e libertà! La vocazione cristiana porta insita in sé, per forza propria, la vocazione al martirio. È, pertanto, una possibilità, a volte molto reale e perfino vicina, per ogni cristiano, laddove egli si trovi. E non pensiamo che i martiri siano possibili soltanto in America latina, Asia, Africa ed Europa dell'est. Ogni anno non sono pochi coloro che hanno confessato la loro fede con il martirio in diversi continenti. Nel mondo ci sono molti che muoiono violentemente, ma non sono martiri; questo è un dono di Cristo crocifisso ed esaltato alla destra di Dio. Se il Crocifisso non ci attrae verso il martirio, se non ci concede questa somiglianza suprema con Lui, non avremo nemmeno la possibilità di essere martiri. Al dono divino si aggiunge la libertà umana, perché il martirio è un atto di sovrana libertà. Nessuno è costretto a morire martire. Si arriva ad essere martiri, soltanto se si è liberi e si ama veramente. Esiste il martirio cruento, possibile per tutti, effettivo soltanto in alcuni. Ed esiste il martirio incruento, possibile ed effettivo per tutti: il martirio del dovere compiuto, della coerenza tra la fede e la vita, della
testimonianza costante, del vivere sempre nella verità, dell'amare i nemici (politici, ideologici, religiosi, parrocchiali...). Qualunque sia il tuo martirio, bevi il calice per Cristo e con Cristo. 

Testo di Totustuus

Foglietto della Messa di domenica 25 aprile 2010 (IV Domenica di Pasqua anno C)

Liturgia della Parola di domenica 25 aprile 2010 (IV Domenica di Pasqua anno C)