7 maggio 2017 - IV Domenica di Pasqua o del Buon Pastore: ...che conduce verso la vita senza confini
News del 06/05/2017 Torna all'elenco delle news
Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Per me, una delle frasi più solari di tutto il Vangelo. Anzi, è la frase della mia fede, quella che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l'ascolto: sono qui per la vita piena, abbondante, potente. Non solo la vita necessaria, non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva; vita che rompe gli argini e tracima e feconda, uno scialo, uno spreco che profuma di amore, di libertà e di coraggio.
Così è Dio: manna non per un giorno ma per quarant'anni nel deserto, pane per cinquemila persone, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari.
«Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita ed ha creato in noi l'anelito verso più grande vita» (G. Vannucci).
Il Vangelo contiene la risposta alla fame di vita che tutti ci portiamo dentro e che ci incalza.
Il primo gesto che caratterizza il pastore vero, datore di vita, è quello di entrare nel recinto delle pecore, chiamare ciascuna per nome (Gesù usa qui una metafora eccessiva, illogica, impossibile per un pastore "normale", ma il gesto sottolinea il di più, l'amore esagerato del Signore) e poi di condurle fuori.
Gesù porta le sue pecore fuori dal recinto, un luogo che dà sicurezza ma che al tempo stesso toglie libertà. Non le porta da un recinto ad un altro, dalle istituzioni del vecchio Israele a nuovi schemi migliori. No, egli è il pastore degli spazi aperti, quello che lui avvia è un processo di liberazione interminabile, una immensa migrazione verso la vita. Per due volte assicura: «io sono la porta», la soglia sempre spalancata, che nessuno richiuderà più, più forte di tutte le prigioni (entrerà e uscirà e troverà...), accesso a una terra dove scorrono latte e miele, latte di giustizia e innocenza, miele di libertà. Più vita.
La seconda caratteristica del pastore autentico è quella di camminare davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade. Non un pastore che grida o minaccia per farsi seguire, ma uno che precede e convince, con il suo andare sicuro, davanti a tutti, a prendere in faccia il sole e il vento, pastore di futuro che mi assicura: tu, con me appartieni ad un sistema aperto e creativo, non a un vecchio recinto finito, bloccato, dove soltanto obbedire. Vivere è appartenere al futuro: lo tiene aperto lui, il pastore innamorato, «il solo pastore che per i cieli ci fa camminare» (D. M. Turoldo).
Omelia di padre Ermes Ronchi
Il Signore è il buon pastore che assicura a tutti la felicità
La quarta domenica del tempo di Pasqua è detta del Buon Pastore, sia perché ci viene proposto il testo del Vangelo che ci parla di Gesù Cristo, buon pastore e sia perché nel contesto della Pasqua siamo tutti invitati a pregare il Buon pastore che mandi alla sua chiesa pastori buoni, generosi e santi, che vadano alla ricerca della pecorella smarrita e si assumano tutte le responsabilità in ordine al loro ministero a servizio delle anime, della comunità dei credenti e della stessa umanità.
Nella preghiera iniziale delle liturgia eucaristica, noi preghiamo oggi con queste significative parole, che sono la sintesi di quanto sentiremo ed ascolteremo dalla voce del buon Pastore, che è Cristo stesso, che parla a noi attraverso la Chiesa di oggi, a partire dalla figura autorevole di Papa Francesco: "Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna, perché l'umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore".
Il testo degli Atti degli apostoli di questa quarta domenica ci fa ritornare al giorno della Pentecoste e ai discorsi di Pietro alla gente che si avvicina progressivamente alla nuova religione, quella cristiana, di cui il principe degli apostoli si fa interprete e annunziatore, focalizzando la sua attenzione che "Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso". Le conseguenze immediate di questo discorso è la disponibilità delle persone a cambiare vita e strada. Ecco perché chiedono a Pietro e agli Apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?», dal momento che erano stati profondamente toccate nel cuore. Pietro replica invitando alla conversione tutti coloro che vogliono venire alla fede, partendo dal ricevere il battesimo "nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati", e dalla Cresima, dal momento che riceveranno "il dono dello Spirito Santo".
L'ultimo caloroso appello che Pietro rivolge a presenti fu: «Salvatevi da questa generazione perversa!». I frutti di quella prima catechesi o predicazione di massa si videro subito, al punto tale che negli Atti si annota che "quel giorno furono aggiunte circa tremila persone". Come è facile capire l'azione pastorale degli apostoli si fa sempre più evidente, attingendo lo stimolo ad ampliare gli spazi di comunicazione dalla sacra scrittura e dalla preghiera dei Salmi, come oggi è ricordato nel Salmo 22, nel quale si riconosce che "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l'anima mia. Mi guida per il giusto cammino. Con il Signore non temo alcun male, anche in una condizione di buio totale in tutti i sensi. Un pastore buono ed attento che dà sicurezza al gregge, che cammina sicuro su pascoli erbosi.
Anche nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla prima lettera di san Pietro apostolo, troviamo un forte appello alla pastorale della pazienza, della sofferenza e della sopportazione. Infatti scrive San Pietro "se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme. Gesù non commise peccato, fu una persona sincera, un soggetto di grande sopportazione, in quanto "insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. Gesù si è caricato sulla sua persona i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti".
Tutto cambia con la venuta di Gesù e con la sua morte e risurrezione, l'umanità ritrova le ragioni della sua speranza e del suo presente e futuro: "Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime".
Nel Vangelo di San Giovanni troviamo il passo relativo alla figura del buon pastore, su cui si incentrato il tema e la liturgia di questa quarta domenica di Pasqua: "egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Di fronte alla scarsa comprensione del discorso di Gesù, nello stesso brano del Vangelo troviamo la replica e l'ulteriore spiegazione di quanto Gesù andava dicendo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo...io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
Avere la vita in abbondanza in Gesù Cristo è incamminarsi sulla strada della santità che passa attraverso una convinta purificazione dei nostri peccati e con il desiderio, vivo e sincero, di iniziare un percorso nuovo di vita vera che non scende a compromesso con nessuno e soprattutto con la propria coscienza. Il modello a cui ispirarci è Gesù stesso e accanto a Lui poniamo in queste mese di maggio anche la sua dolcissima Madre, Maria Santissima, che il 13 maggio 1917, apparendo ai tre pastorelli, a Fatima, chiedeva la conversione del mondo al bene supremo della pace, della giustizia, della verità e della purezza dei sentimenti. Nell'imminenza di questa ricorrenza mariana, chiediamo alla Vergine Santa che ci confermi nel nostro proposito di raggiungere la santità, partendo da questa terra e vivendo da santi in questa misera valle di lacrime.
Omelia di padre Antonio Rungi
La mia vocazione è una somma di risposte-senza-chiamata
Quella volta capitò più o meno così, parola-più, parola-meno. Adocchiò Simone accartocciato sulla battigia del lago e s'intristì di quella dannata routine: "Simone, per davvero vuoi passare tutta la vita a battere il lago? Perché non tenti l'avventura con me? Sarà difficile, t'avviso. Però io sarò con te. Tu, che fai: ci stai?" Simone mandò gambe all'aria il suo vecchio mestiere, buttò giù dalla torre gli arnesi, Gli andò dietro. Quelle parole così avventuriere erano esche luminose: lui pesce, Cristo pescatore. Aprivano strade, quietavano burrasche, facevano cadere le vecchie mura di Cafarnao. Capitò a Simone ciò che capiterà a milioni di uomini e donne dopo di Lui: quando non s'aspetteranno più nulla da nessuno, sarà proprio allora che comincia la partita: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi, credete al Vangelo» (Mc 1,15). Poco meno di centocinquanta caratteri: tra i granelli fitti di così scarne parole, sta nascosta la rivelazione della più grande vita possibile. Della freschezza più cara: «Duemila anni dopo aver attraversato le sue labbra, la sua parola aveva mantenuto tutta la sua freschezza» (Ch. Bobin). Parole pratiche, dunque di vita-eterna.
Parole-agricole: «Io sono la porta delle pecore». Parole-amanti: "L'altro è un farabutto, un millantatore rubacuori". Ancora l'Amore e Lucifero, in coppia, a disposizione: non ci sarà mai gioia senza libertà, anche d'affidare il patrimonio dell'anima nostra allo smargiasso di Satana. È sempre la solita storia, dai tempi delle piramidi. Erano gli anni del faraone paranoico quando Dio acciuffò Israele per i capelli e lo portò a spasso nel deserto: all'orizzonte si stagliava la Terra-Promessa. Israele mica capì che stava viaggiando su ali d'aquila, in carrozze di prima classe: sbraitò contro Dio, mise con le spalle al muro quel povero-cristo di Mosè, rinfacciò al Cielo l'amarcord delle pentole piene di cipolle che gli davano in Egitto. Israele, pur trattato con guanti di velluto, mica capì che la schiavitù è una sicurezza, la libertà è il più grosso rischio. Ciò che Dio, invece, capì fu che era giunto solo a metà dell'opera: aveva tirato-via Israele dall'Egitto, non Gli era riuscito di strappare via l'Egitto dal cuore di Israele. Annate dopo, sotto mentite spoglie, riprenderà la faccenda, per non lasciare nulla incompiuto: Sono io, non quell'altro imbecille, il vostro Buon-Pastore. A bordo-strada, mi farò riconoscere: «Le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome». Che un pastore chiami le pecore è poca cosa, assai nota: che il pastore chiami ciascuna pecora per nome, pare addirittura eccessivo, una delle troppe esagerazioni di Cristo. Eppure la chiamata - la strana faccenda che gli uomini trattano come vocazione - è questo: sentirsi dare del tu, sapersi chiamati per nome, essere nel mirino di Cristo prima ancora d'accorgersi della sua presenza.
La mia, di vocazione, sta tutta qui. È poca-roba: «Credo non perché vedo ma perché sono stato visto» (E. De Luca). Più che fede, la mia è una somma di risposte-senza-chiamata: Iddio mi risponde, io manco lo chiamo. Son fortunato: sono braccato da qualunque parte mi volti, pare impossibile - pur col massimo impegno - scappar fuori da questo recinto. Mi conduce fuori Lui, mai nessuna prigionia tra noi. Alla galera accetta di rischiare la fedeltà, quella mia a Lui: «Le conduce fuori». Le indicazioni, però, le detta Lui, che stiano chiare: «Cammina davanti ad esse». Prima il Pastore, poi la pecora. Ho tentato - in materia di fede vivo a corrente alternata - il contrario: sono andato fuori-strada. Il Vangelo non mente: a ricordarmelo, ci son ferite sulla pelle. Nell'anima, al cuore della nostra storia d'amore. Nei giorni di bel tempo - Lui davanti, io dietro - seguirlo è una danza. Nei giorni di foschia - io davanti, Lui dietro - capisco il suo amore per me: in quei giorni, Dio pare simile a quei bambini che si aggrappano alle gonne della mamma, ficcano le mani dentro il tessuto, si lasciano trascinare ovunque senza che sia possibile sganciarli prima che abbiano ottenuto ciò che vogliono. Impossibile, per me, sganciarLo prima che Lui abbia ottenuto ciò che vuole: che io vada dietro Lui. Che sia tutto suo, lasciandomi però il potere di negarlo.
Omelia di don Marco Pozza
Liturgia e Liturgia della Parola della IV Domenica di Pasqua (Anno A) 7 maggio 2017
tratto da www.lachiesa.it