28 febbraio 2016 - III Domenica di Quaresima: Convertirsi alla pazienza di Dio

News del 27/02/2016 Torna all'elenco delle news

Davanti alle catastrofi, alle cose negative della vita, cosa siamo chiamati a fare e ad essere? E' questa la domanda che c'è posta nella prima parte di questo testo evangelico: Luca racconta due episodi, nei quali delle persone muoiono in circostanze singolari. Nel primo caso si parla di una rivolta di un gruppo di Galilei nei confronti degli oppressori romani, che Pilato soffoca nel sangue. La seconda è, invece, legata al caso. Una torre cade su diciotto persone e le uccide. La domanda che Gesù si pone è quella che si chiedevano tutti gli ebrei. Questi fatti sono avvenuti per un rapporto colpa- castigo ( vedi Giobbe) o, invece, sono un invito forte alla conversione di tutti? Gesù ci invita a entrare in tale logica. Le circostanze della vita non ci permettono di pianificare il nostro futuro, per cui è impossibile sapere cosa ci accadrà. Le disgrazie di questo mondo, non sono mai imputabili a Dio, ma fanno parte della vita. Detto in altri termini. Non sono più sano di altri perché sono credente, ma proprio perché credo voglio convertirmi e capire come tali situazioni, a volte difficili, sono parte integrante del nostro esistere. Le tragedie succedono perché la gente pecca? Assolutamente no, però tutto questo diventa un monito per capire come su questa terra anche ogni minuto, ogni secondo, possa essere davvero prezioso. Sono invitato a non sprecare la mia vita e a capire come la mia esistenza è molto labile. Chi ha sperimentato la morte di persone care in tenera età per malattie o incidenti, lo capisce ancora di più. 

Nella seconda parte, vi è l'invito di Gesù alla pazienza, all'attesa. Si parla di un fico che non produce nulla per tre anni, ma che il contadino vuole lasciare ancora un anno, affinché possa produrre frutto. Noi vorremmo che la gente cambiasse subito e certe idee entrassero immediatamente nella testa degli altri. E invece ci vuole tempo, pazienza. Pensiamo anche ai rapporti interpersonali. Quando scegliamo la tempistica giusta, otteniamo dei risultati stupendi. Ma se affrettiamo i tempi, succedono dei grossi guai. E, a volte, siamo chiamati ad aspettare la gente per mesi, affinché possa ritornare in contatto con noi, magari in una forma diversa. La stessa cosa capita con Dio che sa pazientare, che sa attendere e non giudica. Il tema di oggi è, allora, un forte invito alla conversione, ma anche ad aspettare i tempi di Dio e i tempi delle persone che, molte volte, sono diversi rispetto ai nostri schemi. Ma, forse, proprio questo è il bello della nostra vita!

Omelia di don Luigi Trapelli

 

Padrone, lascialo ancora quest'anno

Albero di Dio, piantato nella sua vigna, nella sua Chiesa, è ogni cristiano. Dio non pianta inutilmente, perché Cristo Gesù non è morto inutilmente. Lui è morto e dal suo corpo trafitto ha prodotto lo Spirito Santo, con il quale dovrà essere rinnovata la faccia della terra dal cuore rinnovato dell'uomo. Ora se il cristiano non rinnova la faccia della terra, producendo come Cristo Gesù, lo Spirito Santo, lui è albero sterile, privo del frutto che il Padre celeste si attende da Lui. Fruttificare è esigenza di vita.

Se l'albero fruttifica, è vivo. Se non fruttifica è sterile. È albero inutile nella vigna del Signore. Lo si deve sradicare, tagliare, gettare nel fuoco, e lasciare il suo spazio ad altri alberi che a suo tempo fruttificheranno lo Spirito Santo. Il Padrone della vigna ha deciso. L'albero va tagliato. È sterile. A Lui non servono alberi senza frutto. È uno sciupio di tempo e anche di terra fertile. Tra la decisione e l'azione del tagliare e sradicare si inserisce il contadino. Questi chiede un altro anno al Padrone. Lui in questo tempo zapperà attorno all'albero, vi metterà il concime, si adopererà in ogni modo perché l'albero possa produrre il suo frutto. Se dopo questo ulteriore impegno non vi sarà alcun frutto, allora è giusto che l'albero venga tagliato.

Dalla parabola di Gesù emergono due verità che devono essere essenza della nostra fede. Ogni albero deve dare al Signore il suo frutto di Spirito Santo. Cristo Gesù, albero del Padre, ha dato il suo frutto. Ha prodotto lo Spirito Santo per tutto il genere umano. Lo Spirito Santo, prodotto da Cristo, viene dato al cristiano perché lo produca anche lui come frutto di salvezza, redenzione, conversione, giustificazione per i suoi fratelli. Se il cristiano non produce, è obbligo di chi è il suo pastore, del suo presbitero, mettere ogni attenzione, ogni cura, ogni dono di grazia perché lui produca. È questa la sua grande misericordia: far sì che ogni albero affidato alle sue cure possa produrre il frutto dello Spirito Santo che il Padre si attende, esige, richiede, vuole. Se il pastore, o il presbitero, non dona un supplemento di attenzione, di verità, di grazia, di lavoro, l'albero va tagliato, ma lui non ha vissuto verso di esso tutta la sua misericordia.

Non si è giusti, convertiti, a posto con la propria coscienza, perché su di noi non è crollata la casa, la torre e neanche perché la nostra vita è stata risparmiata, mentre quella di altri è stata presa in modo violento dagli uomini. Siamo giusti se produciamo il frutto che dona vita al mondo intero e che è lo Spirito Santo. Siamo misericordiosi e perfetti come il Padre celeste, se mettiamo ogni nostro impegno perché ogni albero affidato alle nostre cure, ma che non produce lo Spirito Santo, attraverso la nostra opera solerte, impegnativa, ininterrotta, mettiamo tutta la grazia di Dio che è nel nostro cuore a servizio degli alberi infruttuosi perché inizino a produrre il loro frutto di vita.

Ormai il discepolo di Gesù ha un concetto minimalista della giustizia e del suo obbligo verso Dio. È sufficiente che lui non ammazzi fisicamente nessuno e la sua coscienza è a posto. Non sente nessun rimorso per la sua accidia spirituale, per la sua indifferenza, per la non fruttificazione dello Spirito Santo. Anche chi è pastore non si occupa più della fruttificazione dello Spirito. Sono sufficienti opere esterne e tutto è a posto.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, liberateci da ogni stoltezza.

Omelia del Movimento Apostolico
 rito romano
 

Dio ha diritto di chiederci frutti

Il Vangelo di oggi ci da una chiave di lettura importantissima per la nostra vita: ogni fatto doloroso è un'occasione per convertirci, per cambiare, per migliorare! Partiamo dai fatti: Pilato, governatore romano della Giudea, per dare dimostrazione della forza dell'impero di Roma, aveva fatto uccidere brutalmente dei pellegrini galilei insieme agli animali che stavano sacrificando nel Tempio; un vero abominio per la mentalità biblica. alcune persone vanno da Gesù e gli chiedono: "Come mai a quelle persone gli è successo ciò? Quali peccati avranno mai commesso per "meritarsi" questo "castigo?". Gesù non risponde a questa domanda (sbagliata), ma li invita ad usare questi fatti dolorosi come occasioni per cambiare. Vediamo due punti.

Primo: innanzitutto Gesù fa capire che è sbagliato cercare sempre un collegamento diretto tra colpa e morte, tra peccato e infortunio, della serie: se lo meritava? Dio l'ha punito! Non è un problema di "colpa maggiore o minore" ma è un'occasione di conversione per chi lo viene a sapere: se non vi convertite, perirete anche voi allo stesso modo! Cioè usate questi avvenimenti dolorosi come occasioni per convertirvi, perché anche a voi non arrivi una morte improvvisa, senza senso, senza che vi siate minimamente preparati all'incontro con Dio. Dunque il Signore ci invita a chiederci: ma se c'ero io al loro posto, in che condizione mi sarei trovato? Come mi sarei presentato davanti a Dio? Sono in grazia di Dio? Mi son confessato di recente? Sto cercando di vivere nella verità e nella giustizia? Come prima cosa il Signore ci invita ad usare questi avvenimenti come occasioni per riflettere sulla nostra vita e convertirci oggi: d'altronde Dio ci ha assicurato la Sua misericordia, ma il domani non ce lo ha assicurato nessuno (sant'Agostino).

Secondo: Queste situazioni di dolore diventano occasioni di conversione perché ci chiamano ad agire per aiutare gli altri! Il punto non è chiedersi se uno si merita o no di soffrire, ma se mi lascio scomodare dalla sua sofferenza! Il dolore è una chiamata all'amore, alla missione; la sofferenza, mia o altrui, è una vocazione ad amare di più! Quanti santi sono sbocciati dall'incontro con la sofferenza: pensiamo a sant'Ignazio di Loyola, che costretto a letto per mesi iniziò a conoscere il Signore e la vita interiore, accorgendosi della vanità della vita mondana; a san Filippo Neri e don Bosco, che partirono nella loro missione di educatori dall'incontro con la sofferenza dei bambini di strada; a san Giuseppe Cottolengo che, profondamente scosso dall'incontro con una povera donna in fin di vita, perché povera e non accolta nell'ospedale, diede vita alla Piccola Casa della Divina Provvidenza; o a Madre Teresa, che nell'incontro con un povero per la strada riconobbe la voce di Cristo che diceva: "ho sete"... noi siamo affamati di gossip, sentiamo tanti fatti di cronaca, vediamo tanti amici persi, assistiamo alla scristianizzazione della nostra società; bene, oltre a sentire queste notizie, ci lasciamo toccare? Ci diamo da fare? Siamo pronti a mettere in gioco la nostra vita per gli altri? Questi fatti rimangono cronaca o diventano impegno a favore gli altri? Quanto sarebbe bello se in noi diventassero ciò che sono, cioè chiamata ad agire, a donarci di più...

Ecco allora il perché della parabola del vignaiolo. Dio ha diritto di chiederci frutti: Egli bussa al nostro cuore attraverso i fatti dolorosi della vita e ci chiama a rientrare in noi, a vivere nella verità e all'amore, non al menefreghismo. A che serve che mi commuovo, vedendo in tv fatti devastanti, se poi non muovo nemmeno un dito? La vita è una domanda di senso a me: non mi è richiesto di avere una risposta a tutti i perché teorici della vita, ma che io dia risposta ai bisogni degli altri con la dedizione a la cura. 

Le situazioni di dolore sono appelli che Dio mi fa perché inizio veramente ad amare, a dare una svolta alla mia vita, a darmi da fare per gli altri, ad essere misericordioso, riscoprendo che nella vita ciò che conta è amare, e che l'unica misura dell'amore è amare senza misura! Questa è la qualità umana più alta! Gesù usa pazienza, ci da tutto se stesso per farci sbocciare, come il vignaiolo della parabola che aspetta tempo e si prende cura del fico perché porti frutto. Sì, siamo chiamati a portare frutti buoni, a sbocciare, ma potremo farlo solo se ci lasceremo interpellare dai fatti seri della vita.: ogni avvenimento è un' occasione che hai per decidere chi essere e quanto amare! E' l'amore che ha spinto Gesù a dare la sua vita per noi e i santi a ricambiare a questo dono donandosi interamente a Lui per la salvezza degli altri. E tu quanto vuoi dare della tua vita?

Omelia dei Missionari della Via

 

Dio ama per primo, ama in perdita, senza condizioni

Che colpa avevano quei diciotto uccisi dalla della torre di Siloe? E i tremila delle Torri gemelle? E i siriani, le vittime e i malati, sono forse più peccatori degli altri? La risposta di Gesù è netta: smettila di immaginare l'esistenza come un'aula di tribunale. Non c'è rapporto alcuno tra colpa e disgrazia, tra peccato e malattia. La mano di Dio non semina morte, non spreca la sua potenza in castighi.

Ma se non vi convertirete, perirete tutti. È tutta una società che si deve salvare. Non serve fare la conta dei buoni e dei cattivi, bisogna riconoscere che è tutto un mondo che non va, se la convivenza non si edifica su altre fondamenta, e non la disonestà eretta a sistema, la violenza del più forte, la prepotenza del più ricco.

Mai come oggi capiamo che tutto nel mondo è in stretta connessione: se ci sono milioni di poveri senza dignità né istruzione, sarà tutto il mondo ad essere privato del loro contributo, della loro intelligenza; se la natura è sofferente, soffre e muore anche l'uomo.

Su tutti scende l'appello accorato e totale di Gesù: Amatevi, altrimenti vi distruggerete. Il Vangelo è tutto qui. Senza questo non ci sarà futuro. Alla serietà di queste parole fa da contrappunto la fiducia nel futuro nella parabola del fico: da tre anni il padrone attende invano dei frutti, e allora farà tagliare l'albero. Invece il contadino sapiente, che è un "futuro di cuore", dice: «Ancora un anno di lavoro e gusteremo il frutto». Dio è così: ancora un anno, ancora un giorno, ancora sole pioggia cure perché quest'albero è buono; quest'albero, che sono io, darà frutto.

Dio contadino, chino su di me, su questo mio piccolo campo, in cui ha seminato così tanto per tirar su così poco. Eppure lascia un altro anno ai miei tre anni di inutilità; e invia germi vitali, sole, pioggia, fiducia. Per lui il frutto possibile domani conta più della mia inutilità di oggi.

«Vedremo, forse l'anno prossimo porterà frutto». In questo forse c'è il miracolo della fede di Dio in noi. Lui crede in me prima ancora che io dica sì. Il tempo di Dio è l'anticipo, il suo è amore preveniente, la sua misericordia anticipa il pentimento, la pecora perduta è trovata e raccolta mentre è ancora lontana e non sta tornando, il padre abbraccia il figlio prodigo e lo perdona prima ancora che apra bocca.

Dio ama per primo, ama in perdita, ama senza condizioni. Amore che conforta e incalza: «Ti ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare» (R. M. Rilke). La sua fiducia verso di me è come una vela che mi sospinge in avanti, verso la profezia di un'estate felice di frutti: se ritarda attendila, perché ciò che tarda di certo verrà (Ab. 2,3).

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Liturgia e Liturgia della Parola della III Domenica di Quaresima (Anno C) 28 febbraio 2016

tratto da www.lachiesa.it