20 settembre 2015 - XXV Domenica del Tempo Ordinario: i primi e gli ultimi secondo l'insegnamento di Gesù

News del 19/09/2015 Torna all'elenco delle news

Il testo del Vangelo di Marco di questa XXV domenica del tempo ordinario ci racconta dei suoi viaggio nella Galilea e tra le altre cose che dice egli affronta il tema della sua sofferenza. In questi viaggi, gli apostoli che sono vicino a Gesù e che avrebbero dovuto capire, da tutta una serie di discorsi, di allusioni, di chiare espressioni che Lui si avviava verso la morte in croce, verso il supplizio più tremendo che la storia delle violenze possa ricordare, essi, i discepoli discorrono tra loro di altre cose, più umane e terrene, più di interesse economico e di potere e parlando di chi dovrà comandare, essere il primo, avere il potere nel regno di Dio. Sono le contraddizioni della vita, sono le contraddizioni delle persone che seguono il Signore e quindi abbracciano la religione per avere sicurezze, posti, occupare ruoli. Gesù invece parla di Croce, parla del servizio umile e disinteressato al quale tutti quanti siamo invitati a prendere parte in questo mondo, senza illuderci, senza illudere. Gesù non illude i suoi apostoli e discepoli, anzi dice apertamente a cosa va incontro, non nasconde la verità su una sua apparente sconfitta, quella della morte in croce, ma li chiama in causa per assumersi tutta la responsabilità del discepolo che si pone ala sequela del maestro non per comandare ed essere il primo, ma per servire e dare la vita, scegliendo l'ultimo posto nella gerarchia dei potere umano e civile, religioso, che spesso affascina anche i più stretti collaboratori del Signore, visto come ragionano e come la pensano circa la loro futura sistemazione. Il testo del Vangelo di Marco è di grande insegnamento sul modo di procedere in ordine all'adesione a Cristo e al sistema di pensiero che deve guidare un vero cristiano: essere servi, essere ultimi, e non cercare il potere la gloria, il primo posto. E se gloria di vuole cercare, sia quella della Croce, del donare la vita per i propri amici. E per raggiungere questa alta meta di vera spiritualità e moralità cristiana, bisogna prendere esempi dai bambini. Gesù, infatti, quando arriva a Cafarnao e sta in casa con i suoi discepoli, cosa fa? Prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Accogliere Cristo come bambini, nella semplicità del cuore, della mente e del pensiero. I bambini non aspirano al comando, al potere, vivono con semplicità la loro esistenza di infanti, senza coltivare sogni di potere che non si realizzeranno mai. Un sogno possibile per tutti è quello di prendere la croce e seguire Cristo sulla via del Calvario. Questo sogno è già prefigurato nel brano della prima lettura di oggi, tratto dal Libro della Sapienza dove si parla del giusto condannato ad una morte infamante. E' storia del Crocifisso che molti secoli prima è prefigurata nei brani della sacra scrittura, al punto tale che il Messia, quello vero, dovrà necessariamente passare per la via della sofferenza e dell'umiliazione. Quello, appunto, che è capitato a Gesù. Chi progetta il male nella sua mente non fa' che poi il male nella vita e concretamente. E gli empi di cui parla il testo della Sapienza sono tutti coloro, che in secoli successivi, hanno poi decretato la morte in croce del Signore. Infatti a Gesù gli hanno teso insidie gli empi del suo tempo, perché il suo insegnamento era di rimprovero per il loro modo di agire e di comportarsi a livello personale e sociale. La sincerità del parlare di Cristo lo portò alla condanna. Ed egli con umiltà accettò la prova e sopportò ogni umiliazione per amore dell'umanità, Lui il Figlio di Dio, venuto in questo mondo per salvarci. Una salvezza che richiede anche la nostra e risposta di fede e di amore verso il Signore e verso il nostro prossimo. San Giacomo apostolo, nella sua lettera che ci sta accompagnando in queste domeniche, ci rammenta cose importanti che dobbiamo necessariamente fare se vogliamo predisporre tutti gli atti per salvarci. Si tratta si evitare tutte quelle forme di aggressività, violenza, denigrazione, umiliazione e divisioni, che alimentano le persone che sono senza Dio e non hanno fede. Chi ha fede, sa capire, amare e perdonare e si libera da tutto ciò che è perversione umane e degradazione morale. L'invito dell'Apostolo accogliamolo con sincerità di intenti e di volere ed operiamo im modo che nella nostra vita non ci siano gelosia e spirito di contesa, disordine e ogni sorta di cattive azioni. D'altra parte da dove vengono le guerre e le liti che ci sono in mezzo a noi? Non vengono forse dalle nostre passioni che fanno guerra nelle nostre membra? Siamo pieni di desideri e non riusciamo a possedere; si uccide, si è invidiosi, ci si combattete e fa guerra su tutti fronti e contro tutti. Non abbiamo tante cose perché non abbiamo l'umiltà di chiedete; e se chiediamo si chiedono cose non buone, perché si chiedono cose soddisfare cioè le nostre passioni. E allora quale risposta positiva dobbiamo dare a queste tendenze nefaste e distruttive che albergano in noi e in tutte le realtà?. Dobbiamo chiedere la sapienza che viene dall'alto, che è anzitutto pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Tale sapienza costruire ponti di pace e non alza muri di guerra e di ingiustizie, come si sta registrando in questi giorni davanti al dramma dei rifugiati e degli immigrati. Il cristiano non può restare insensibile a questi drammi di oggi, ma deve attivarsi nella logica della sapienza che viene dal cielo e che ci fa essere buoni ed accoglienti. Sia questa la nostra preghiera oggi: Signore, donaci la sapienza che viene dall'alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve e non colui che spadroneggia sulle persone e sulle nazioni umiliando la dignità di tanti fratelli e sorelle nella fede e in umanità.

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Il piccolo Aylan e tutti gli altri

Abbiamo tutti negli occhi le foto strazianti del piccolo Aylan, diventato simbolo delle tragedie che accompagnano l'esodo in corso verso l'Europa. Ma possiamo, quell'innocente, considerarlo anche il simbolo delle violenze d'ogni sorta cui sono sottoposti in tutto il mondo tanti bambini: e a questa immagine si contrappone, nel vangelo di oggi (Marco 9,30-37), quella tenerissima di Gesù che abbraccia un bambino e ne fa l'emblema dell'atteggiamento che gli adulti dovrebbero assumere anche verso di loro.

Il suo insegnamento viene a conclusione di un episodio sintomatico. Ancora, come domenica scorsa, troviamo Gesù intento a istruire gli apostoli, preparandoli agli eventi prossimi, così diversi da quelli che essi si attendevano dal Messia. Eccolo allora ribadire che lui, "il Figlio dell'uomo, viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà". Tuttavia la greve umanità di coloro, che pure lui stesso ha scelto come primi collaboratori, insiste nell'aggrapparsi all'opinione corrente di un Messia politico, il quale, cacciati i Romani occupanti, restaurerà l'antico regno d'Israele. Sono così radicati in questa prospettiva, che invece di badare alle parole del Messia discutono tra loro su chi sia il più grande, e dunque a chi di loro, nel futuro regno, toccherà il posto più importante.

Pazientemente il Maestro torna a spiegare, accompagnando le parole con un gesto esemplificativo. "Disse loro: Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato". I bambini allora erano privi di rilevanza giuridica e sociale; perciò un bambino si prestava ad essere il simbolo degli emarginati, dei tanti che "non contano". In quel bambino, Gesù li abbraccia tutti, e invita a fare altrettanto. Quale cambio di prospettiva! Il più grande è chi serve, chi accoglie nella propria mente e nel proprio cuore anzitutto quanti non godono di privilegi, quanti nella società stanno un passo (o due, o tre, e spesso di più) dietro agli altri. Nel mondo nuovo che Gesù instaura, l'importanza di una persona non si misura dal suo potere, dal suo danaro, dal suo successo, ma dalla disponibilità, dall'impegno a fare giustizia, ad alleviare le condizioni dei meno fortunati.

Così ha fatto lui, e dopo di lui una schiera di uomini e donne che hanno cercato di imitarlo. In virtù del loro impegno, questo rivoluzionario principio in duemila anni ha cambiato il mondo; oggi formalmente tutti, e non solo i cristiani, condannano certi atteggiamenti e criteri di vita che un tempo erano ritenuti normali (la discriminazione delle donne, la pedofilia, la schiavitù, il dispotismo eccetera); almeno a parole, oggi tutti riconoscono che la fame nel mondo è frutto di un'ingiustizia da sanare, ed è pacifico che chi è investito di autorità non dovrebbe operare per l'utile proprio ma per il bene comune. Insomma, sull'antico criterio dello sfruttare gli altri a proprio vantaggio (o, quando andava bene, dell'indifferenza per le condizioni altrui) oggi trionfa il criterio prettamente cristiano del servire. Trionfa negli enunciati delle leggi e nelle dichiarazioni pubbliche; se però si guarda ai fatti, si rischia di deprimersi costatando la loro difformità rispetto ai principi.

Ne deriva l'impegno, per ogni uomo che si riconosca tale, ad adeguare il proprio comportamento ai principi che un'onesta intelligenza riconosce giusti. L'impegno vale in particolare per i cristiani, se vogliono ritenersi seguaci del Figlio di Dio, il quale è venuto tra noi, come ha dichiarato lui stesso (Marco 10,45), non per essere servito ma per servire. Sino a dare la vita.

Omelia di don Luciano Cantini

 

L'abbraccio del cuore

Non capivano

Gesù, lungo la strada della Galilea, con i discepoli stava insegnando loro il senso e la missione del Messia; non è tanto un annuncio della sua passione quanto un insegnamento che avrebbe dovuto illuminare l'animo dei discepoli, lo fa utilizzando le parole che troviamo nel libro di Isaia (cap. 52 e 53) dove si parla delle sofferenze del Servo di Jahwé, ma i suoi non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

Ci sconforta considerare l'uomo sempre così aperto a qualsiasi "sapere", disponibile a tutto ciò che ha sapore di novità, che invece si chiude in se stesso nella proprie convinzioni di fronte al mistero della sofferenza e della morte. Il rifiuto è totale perché non capendo neanche si chiede, anzi abbiamo timore che chiedendo si riceva risposte che scombinano il sistema acquisito di certezze. Ci sarebbe da domandarci come stia funzionando la nostra relazione col Signore, ferma in convincimenti e pratiche religiose, nello stesso tempo frenata nella conoscenza e disattivata nelle domande che pure ci poniamo.

Di che cosa stavate discutendo

Il Vangelo ci rivela che noi uomini non siamo privi di questioni che pure trattiamo ma nel riserbo e con una certa vergogna: Gesù si accorge del parlottare lungo la strada che niente aveva a che vedere col suo insegnamento, sa che gli argomenti che interessavano i discepoli stavano andando esattamente nella direzione opposta al suo insegnamento. Ma, sollecitati, i discepoli tacevano.

Sembra incredibile eppure siamo capaci di praticare una religione, sentirsi "fedeli", parte di una Chiesa ma nella concretezza dei fatti non condividerne le convinzioni e gli insegnamenti. Siamo fatti così e preferiamo nascondere, anche a noi stessi, tacere certe contraddizioni, sfasature, incomprensioni, incoerenze. Non siamo capaci di giustificarci e neppure di tentare una cambiamento: "sono fatto così e se mi vuole Gesù mi prende come sono!". Non conta l'insegnamento e l'esempio del Signore, la storia personale ci condiziona a tal punto da non vedere oltre la punta del naso, la storia e la geografia sembra fermarsi ai propri interessi, non superare l'orizzonte dei nostri personali desideri, abbiamo creato "un cerchio intorno a noi".

Chi fosse più grande

Evitiamo di atteggiarci a moralisti e giudicare quei pover'uomini non dissimili al nostro pensare... si sono lasciati prendere dall'egoismo, dalla carriera (anche religiosa e parrocchiale), sono superbi, orgogliosi, presuntuosi... Proviamo a immaginare un regno ben organizzato e il desiderio di parteciparvi attivamente, di avere un ruolo politico magari in qualche ministero. Il problema è la manifestazione del peccato profondo del genere umano, quello che abbiamo chiamato peccato originale: la voglia di "potere", di diventare come Dio (Gn 3,5), un Dio grande e possente.

Gesù, invece aveva insegnato che Dio non è né grande né potente, piuttosto viene consegnato nelle mani degli uomini perché gli uomini avessero la possibilità di prendere atto del loro delirio di potere arrivando ad ucciderlo. Ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà, così che la grandezza di Dio si potesse manifestare una volta raggiunta la piccolezza, quando messosi a servizio di tutta l'umanità e sopraffatto da essa, gli uomini avessero esaurito ogni altra possibilità se non quella di un cambiamento di rotta.

Preso un bambino

Lasciamoci pure intenerire dall'immagine, dall'abbraccio del Signore che manifesta l'essere un tutt'uno con quel bambino, lasciamoci accogliere dalla sua misericordia che non solo con le parole, ma anche con i gesti, continua ad insegnare a noi. Dio porta al suo cuore un bambino, l'uomo nella sua piccolezza, vorrebbe farci capire che il Dio che immaginiamo e desideriamo è capovolto rispetto al Dio vero, vorrebbe che non tentassimo di capovolgerlo, piuttosto che capolvolgessimo i nostri desideri e le nostre aspettative.

Gesù abbracciandoci ci chiede di far battere il nostro insieme al suo grande cuore fattosi piccolo.

Omelia di padre Antonio Rungi

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 20 settembre 2015