6 settembre 2015 - XXIII Domenica del Tempo Ordinario: la bellezza di aprirsi a Dio e agli altri

News del 03/09/2015 Torna all'elenco delle news

Portarono a Gesù un sordo­muto. Un uomo imprigio­nato nel silenzio, che non può comunicare, chiuso. Eppure privilegiato: non ha nessun meri­to per ciò che gli sta per accadere, ma ha degli amici, una piccola co­munità di gente che gli vuol bene e lo porta davanti a Gesù. Il sordo­muto, icona di ognuno che venga alla fede, racconta così il percorso di guarigione per ogni credente. Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. È la prima azione. Io e te soli, sembra dire. Ora sono to­talmente per te, ora conti solo tu. Li immagino occhi negli occhi, e Ge­sù che prende quel volto fra le sue mani.

E seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli o­recchi del sordo. Non il braccio o la mano, ma le dita, come l'artista che modella delicatamente il volto che ha plasmato. Come una carezza. Poi con la saliva toccò la sua lin­gua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell'uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli del­lo Spirito. Gesù, all'opera con il corpo del­l'uomo, mostra che i nostri corpi sono laboratorio del Regno, luogo santo di incontro con il Signore. Guardando quindi verso il cielo... gli disse: Effatà, cioè: Apriti! Come si apre una porta all'ospite, una finestra al sole, le braccia all'amore.

Apriti, come si apre uno scrigno prezioso. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, che possa­no diventare feritoie, attraverso le quali passi il vento della vita. Il pri­mo passo per guarire, è abbando­nare le chiusure, le rigidità, i bloc­chi, aprirsi: Effatà. Esci dalla tua solitudine, dove ti pare di essere al sicuro, e che invece non solo è pe­ricolosa, è molto di più, è mortale. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli o­recchi. Simbolo eloquente: sa par­lare solo chi sa ascoltare. Gli altri parlano, ma mentre lo fanno in­nalzano barriere di incomprensio­ne. Primo servizio da rendere a Dio e all'uomo è l'ascolto. Senza, non c'è parola vera.

Nella Bibbia leggiamo di una pre­ghiera così bella da incantare il Si­gnore. Di questa sola è detto che il Signore rimane affascinato. Nella notte che precede l'incoronazio­ne, il giovane Salomone chiede a Dio: «Donami un cuore docile, un cuore che ascolta!» E Dio risponde, felice: «Poiché non mi hai chiesto ricchezza, né potenza, né lunga vi­ta, tutto questo avrai insieme al do­no di un cuore che ascolta!» Dono da chiedere sempre. Instancabil­mente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore un cuore che ascolta. Perché è solo con il cuore che si ascolta, e nasceranno paro­le profumate di vita e di cielo.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Innanzitutto, ascoltare

Ci eravamo lasciati la scorsa domenica con un Gesù in forte polemica con i farisei riguardo alle tradizioni legate alla Legge di Mosè: una polemica talmente aspra che spinge Gesù ad allontanarsi dalla Galilea per rifugiarsi in territorio straniero o "pagano", come veniva considerato dagli osservanti della religione ebraica. A maggior ragione, quindi, con quest'atteggiamento, Gesù appare agli occhi dei farisei come colui che condivide il suo tempo e il suo insegnamento con gente infedele, esclusa dalla salvezza, divenendo, in sostanza, uno di loro.

Sarà...ma l'intento di Gesù è certamente diverso, anzi, forse si tratta dell'esatto opposto rispetto a ciò che sostengono i farisei. Non vuole affatto "escludersi" dalla salvezza, ma vuole fare in modo che, insieme a lui, nessun altro ne venga escluso: né chi appartiene al popolo ebraico né tantomeno chi appartiene a qualsiasi altro popolo sulla faccia della terra. E per fare questo, occorre condividere la loro esperienza, occorre "passare" da loro, occorre spendere del tempo con questi "esclusi". Gesù non si fa certo pregare per andare "nelle periferie", e soprattutto lo fa in maniera abbondante: se guardiamo da un punto di vista puramente geografico, potremmo dire che Gesù ha perso il navigatore satellitare, perché si trova all'estremità occidentale della Palestina, già in terra siro-fenicia, poi si spinge ancora più a Nord, e poi ritorna verso est, andando ben oltre la Galilea...in sostanza, circonda la Galilea attraverso un giro che pare completamente illogico. Illogico, invece, non è, se pensiamo che con questo modo di attuare Gesù vuole quasi circondare, assediare la sua Galilea perché arrivi a comprendere che se vuole sopravvivere, deve aprirsi, spalancare le finestre e guardare oltre i propri limiti geografici e culturali.

La chiusura su se stesso, la concentrazione sulle proprie problematiche, la visione limitata delle cose, l'ascolto di un solo tipo di linguaggio, monotematico e ripetitivo, è ciò che porta l'uomo a fossilizzarsi sulle sue poche certezze e a conformarsi con quel "minimo sindacale" che lo fa sentire a posto, anche nei confronti di Dio. Era, in fondo, ciò che Gesù rimproverava ai farisei, abituati a considerare la salvezza come un insieme di minime pratiche formali, svolte le quali ci si poteva considerare a posto con Dio. Invece no: il rapporto con Dio così come lo insegna Gesù si basa non sulle pratiche minime da svolgere, ma sulla relazione con lui. Una relazione che va oltre l'osservanza della legge, o che quantomeno non si conforma a essa, e che si basa sullo stare con Dio, sul camminare con lui, ovunque egli vada e in ogni situazione nella quale ci chiami a stare. Anche in territorio "straniero", in situazioni "ostili", in realtà periferiche che noi riterremmo incapaci a insegnarci qualcosa.

Il miracolo che Gesù compie "in pieno territorio della Decapoli", ossia in una delle periferie più remote, da questo punto di vista è ricco di significati. Gli viene portato un sordomuto (il testo greco parla di uno "che non sa parlare bene", proprio perché mai ha saputo ascoltare), e la guarigione che Gesù compie è descritta con una grande dovizia di particolari: lo porta ulteriormente in disparte (casomai la Decapoli non lo fosse già abbastanza...); interviene con una certa forza fisica e con gesti non certo riservati agli schizzinosi, ma fortemente simbolici (la saliva nella Scrittura è la condensazione dell'alito di vita del Creatore); concentra la sua guarigione sugli orecchi, prima descritti come parte fisica del corpo, successivamente come luogo dell'ascolto e dell'udito (quasi a dire che l'invalidità fisica non è nulla rispetto al nostro isolamento dal mondo); e soprattutto, lo guarisce con una formula, con una parola, "Effatà", "Apriti", pronunciata in aramaico. E perché mai una parola di guarigione nella lingua degli Ebrei, in un territorio pagano di lingua greca? Se guarisce un pagano, perché mai gli parla in aramaico?

Marco non scrive le cose a caso: forse, la guarigione avviene in un luogo pagano, periferico, "lontano dalla salvezza" (secondo i canoni della religione dei farisei), ma riguarda il popolo eletto, o meglio quella parte del popolo eletto che - come dicevamo prima - rimane concentrata su se stessa, e la sua autoreferenzialità la rende sorda a ogni parola (anche a quella di Dio) e di conseguenza muta, in altre parole incapace ad annunciarne le meraviglie. Cosa che invece sono capaci di fare gli interlocutori pagani di Gesù, i quali - "esclusi" dalla salvezza - addirittura annunciano le opere di Dio citando la Bibbia, con quel "Ha fatto bene ogni cosa" tipico del linguaggio della Creazione.

Sì, perché questo è ciò che Gesù fa a chi si lascia "aprire" da lui: lo rende una creatura nuova, capace di annunciare le opere di Dio perché capace di ascoltare. Spesso, anche la nostra fede si perde in un bicchier d'acqua, soprattutto quando ci concentriamo su alcune cose talmente insignificanti da un punto di vista anche pastorale da denotare la nostra bassezza e pochezza: e magari le rivestiamo d'importanza basando su di esse l'efficacia del Vangelo, così come facevano i farisei con il loro legalismo e il loro formalismo. E questo perché non guardiamo al di là della punta del nostro naso, perché ci chiudiamo sulle nostre certezze, perché non accettiamo modi diversi di vivere la fede e di annunciare il vangelo, e a forza di sentire sempre la stessa musica diventiamo sordi. Oppure, sordi lo siamo già da sempre, "dalla nascita", perché non ascoltiamo nulla e nessuno sulla scorta del fatto che pensiamo di sapere già tutto noi, e quindi di non dover imparare nulla.

Ma se non ci mettiamo in ascolto, non possiamo nemmeno parlare; se per primi non siamo discepoli, non possiamo essere testimoni; se non ci mettiamo noi per primi alla sequela del Maestro, di certo non potremo annunciare nulla di buono. E soprattutto, perché i nostri orecchi si aprano all'ascolto, è bene farlo fuori dai nostri luoghi abituali; fuori dalla Galilea delle certezze, dei pani e dei pesci in abbondanza per tutti, nella Decapoli delle incognite, dei dubbi e spesso anche dell'ostilità. Essere Chiesa missionaria nelle periferie esistenziale, oggi, passa da qui: dalla nostra capacità di ascolto e di dialogo con chi è diverso da noi. Il resto, sono solo slogan e fanfaronate.

Omelia di don Alberto Brignoli

Liturgia e Liturgia della Parola della XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 6 settembre 2015

tratto da www.lachiesa,it