28 giugno 2015 - XIII Domenica del Tempo Ordinario: Toccare la vita e farsi toccare dalla vita!

News del 27/06/2015 Torna all'elenco delle news

Forse la nostra fede non è forte come crediamo o forse è altra cosa da quello che dovrebbe essere; forse non siamo abituati a dare "fiducia" o forse non ci piace essere messi di fronte le nostre responsabilità. Qualunque "forse" possiamo considerare circa la nostra fede nulla ci giustifica se dalla nostra fede abbiamo fatto scomparire il dato essenziale, fondamentale, dal quale la nostra fede nasce e ci rassicura: Gesù ha vinto la morte! Certo, nei giorni in cui Marco ci narra la storia dell'emorroissa e la rianimazione della figlia di Giairo ancora Gesù doveva Risorgere, ma a noi che viviamo nel già della Resurrezione di Cristo non abbiamo scuse per dubitare, e la riflessione più bella che possiamo fare oggi è proprio su quella morte che Dio - come ci ricorda la prima lettura dal libro della Sapienza - non ha mai voluto né progettato, ma che è entrata nel suo progetto per l'invidia del diavolo ( dia-ballo, colui che separa, crea separazione!) e di cui fanno esperienza tutti quelli che alla morte vogliono appartenere. Il Vangelo di oggi sottolinea in maniera evidente questo rapporto tra l'emorragia della vita, di cui soffriamo e per cui andiamo verso la sterilità e la morte, ed i segni vitali di guarigione che Gesù opera per restituirci alla vita, per la vittoria sulla morte. Ovviamente questi miracoli, come tutti i miracoli di Gesù, fanno riferimento al compiersi della salvezza nella Resurrezione di Gesù stesso - che sarà anche la nostra!- definitiva e totale vittoria sulla morte, vero ristabilimento del piano di Vita totale che Dio da sempre vuole per i suoi figli. Personalmente non faccio fatica a leggere e considerare tutti i miracoli di Gesù come segni concreti dell'amore di Dio per i suoi figli, segni che anticipano ed indicano la vittoria definitiva sulla morte con la Resurrezione. D'altronde a cosa servirebbe un miracolo di guarigione se poi non desiderassi anche risorgere per vincere la malattia più grande, cioè la morte? Ed a cosa sarebbe servito a Gesù fare tutti i miracoli che ha fatto se poi non ci avesse dato anche il miracolo più grande, la Resurrezione?

Partiamo dal dato numerico che oggi il Vangelo ci propone e che sembra accomunare le due figure femminili in esso raccontate: Il numero Dodici. Dodici anni sembra essere il tempo che scorre al confine della vita e della morte, un numero che indica un popolo e le sue tribù destinato ad entrare nella terra promessa per vivere al cospetto della Santità divina. Numero simbolico dell'unione tra Dio ed il suo popolo (il tre ed il quattro!), la Chiesa avrà, nei 12 scelti da Gesù, la sua spinta vitale, il suo parto. Dodici anni è l'età in cui una ragazza diventa donna in un processo misterioso ma vitale che, se da una parte chiede il sangue, un'emorragia di vita e contaminazione di Santità, dall'altra esprime la meravigliosa capacità di dare la vita, assieme ad uno dei più difficili e radicali passaggi che la vita di un essere umano deve vivere per entrare nell'età adulta. Dodici sono gli anni in cui i ragazzi (Bar Mitzvah) e le ragazze (Bat MItzvah) diventano uomini e donne assumendo gli obblighi del rispetto della legge (Halakhah) del popolo Ebraico, nella raggiunta capacità di discernere il bene dal male, legge che, se rispettata e seguita pedissequamente, promette di dare la vita. Dodici anni è quindi il tempo della vita che, purtroppo, dobbiamo riconoscere ci sfugge senza pietà (l'emorroissa!) e che quando sembra debba sbocciare per la sua pienezza per dare, a sua volta, la vita stessa, può essere assalita dalla morte (la figlia di Giairo!) e perdere ogni senso!

Insomma questo dodici sembra andare al centro delle nostre domande di senso, nel cuore di quel bisogno di vita eterna che rende importante ogni fatto della vita umana, perché sappiamo che senza questa speranza di vita tutto perderebbe il senso: che senso avrebbe guarire da una malattia, anche la più grave, se poi comunque c'è sempre la morte a sorprenderci dietro l'angolo od anche alla fine dei nostri lunghissimi giorni? Che senso avrebbe ritornare in vita dalla morte per morire poi una seconda e definitiva volta? Che senso avrebbe anche la generazione umana, dare la vita a qualcuno, se non potessimo sperare di poter dare a questi anche una vita eterna insieme con noi?

Anche oggi dobbiamo poter riflettere profondamente su quel Gesù che vogliamo toccare e dal quale vogliamo essere toccati, come nel vangelo, per avere o ti-avere la vita. Dobbiamo poter riflettere sul senso di quella fede, a cui Lui ci introduce, e che può illuminare d'eternità, oggi, tutta la nostra vita, tutte le nostre opere, tutte le nostre speranze!

In un mondo che ha barattato il "per sempre" col "tutto e subito e finché dura" può sembrare difficile tornare al "per sempre", al "ne vale la pena", all'amore crocifisso e Risorto che vince ogni cosa, compresa la morte! Questo, ritorno non può essere poi così difficile, perché l'Eterno ed il bisogno di eternità in noi mai si spegnerà, e tra le tante "droghe" possibili con cui ci anestetizziamo e ci asteniamo da questo bisogno, bisogna riconoscere la crude, bella, luminosa e verissima realtà: Dio Padre ci ama e vuole per noi la vita, vita eterna, e per questo duemila anni fa o giù di lì, ha mandato il suo Figlio nella storia, nella nostra stessa carne, perché vedessimo la Sua Salvezza, trovassimo pace nei nostri cuori inquieti assetati d'eternità, la finissimo di perdere tempo con la morte e la sua paura.

Se ancora oggi la nostra fede riesce a toccare e farsi toccare da colui che ha il "potere" sull'universo intero, comanda alle acque ed ai venti, al sangue ed alla morte di "tacere" e "smetterla" per conto nostro, siamo le persone più fortunate che ci siano perché non siamo più solo e semplicemente persone ma "figli di Dio", figli ricchi della cosa più preziosa che ci sia: La Vita e Vita eterna perché è lo stesso Autore della vita che ci da la Sua.

Non posso che terminare proponendo delle riflessioni che, di questi tempi, sono d'obbligo: Quanto sarebbe più facile vivere se la coscienza della nostra vita eterna fosse il tesoro più grande nelle nostre tasche? Quanto coraggio potremmo osare per metterci in gioco nell'amare più concretamente il prossimo, sapendo che questi, chiunque esso sia, non potrà mai rubarmi la cosa più importante che ho? Il nostro Battesimo, la nostra inscindibile unione con la morte e resurrezione di Cristo, è la fonte ed il principio del nostro agire umano e di ogni speranza divina? Gesù, il Risorto, colui che da la Vita, quella vera, è per me l'ultima, definitiva e più importante parola che Dio poteva dirmi?

Scusate, ma se non riesco a rispondere a queste domande nella maniera giusta mi rendo conto che potrei fare una brutta fine: potrei credere che quello che ho in questa vita è il massimo che mi spetta, e vivere nella continua paura di essere derubato o di perdere quello che ho. Potrei scambiare la mia Fede con un senso di religiosità che corre dietro e si nutre solo di visioni e miracoli, riducendo la Passione, Morte e Resurrezione di Gesù solo ad una possibilità tra le altre senza avere mai una fede che mi consola e mi da forza.

Si, potrei fare proprio una brutta fine se non credessi che Gesù è la Vita!

Omelia di don Massimo Cautero

 

Quante morti evitabilissime

Tra le letture di oggi, sembra appena scritta una frase che si direbbe rivolta a quanti vorrebbero respingere chi arriva qui da lontano a cercare più sopportabili condizioni di vita. Chiedendo aiuto ai benestanti cristiani di Corinto per quelli poveri di Gerusalemme, l'apostolo Paolo dice (seconda lettura, 2Corinzi 8,13): "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza". Nel nome della comune umanità, quanto c'è da riflettere!

Passando al vangelo (Marco 5,21-43), oggi vi si intrecciano due episodi distinti. Tra la folla che si accalca attorno a Gesù, un uomo di nome Giàiro gli si getta ai piedi e lo supplica di andare a casa sua, dove la sua figlioletta dodicenne sta morendo. Gesù si avvia, sempre pressato da ogni parte, quand'ecco una donna, da dodici anni sofferente di emorragie che nessun medico ha saputo guarire, riesce ad avvicinarglisi alle spalle e a toccare le sue vesti, convinta che ciò basti a ridarle la salute. Così avviene; ma Gesù si ferma, si guarda intorno e chiede: "Chi mi ha toccato?"

La domanda sembra assurda: stretto com'è tra la gente, chissà quanti l'hanno toccato. I discepoli glielo fanno notare; ma egli insiste: vuole che la donna esca allo scoperto, per beneficarla anche su un altro piano. Ella non lo sa; teme piuttosto un rimprovero, per avere agito di frodo nel profittare della potenza di lui; perciò gli si palesa gettandosi in ginocchio, impaurita e tremante. Ma egli la rassicura; con tenerezza la chiama figlia, e la rimanda a casa guarita: "La tua fede ti ha salvata", le dice.

L'argomento della fede torna subito dopo, quando riprende la vicenda di Giàiro. Da casa sua arrivano per annunciargli che la bambina è morta, e dunque è inutile disturbare ancora il Maestro. Se a quel povero padre lo strazio dell'annuncio lascia un poco di lucidità, lo immaginiamo d'accordo: tante grazie per la disponibilità del Maestro, ma ormai è accaduto l'irreparabile. Gesù però non gli dà neppure il tempo di aprir bocca: "Non temere" gli dice; "soltanto abbi fede!" Si stacca dalla folla; prende con sé, oltre al padre, i suoi tre discepoli Pietro Giacomo e Giovanni e si reca alla casa di Giàiro, da dove manda via i parenti che all'uso orientale strepitano piangendo e urlando, non curandosi se lo deridono quando dice: "La bambina non è morta, ma dorme". Con i quattro, più la madre della fanciulla, entra nella sua camera, le prende la mano e le ordina: "Talità kum!", cioè "Fanciulla, alzati!" Così avviene; ella si alza, si mette a camminare, e quasi a riprova che sta proprio bene egli ordina di darle da mangiare.

Talità kum: sono tra le poche parole che i vangeli tramandano nella lingua in cui Gesù le ha pronunciate, l'aramaico. Più importante, ai fini della conoscenza di lui, è notare come, dopo le tante guarigioni, dopo aver placato la bufera sul lago, egli si riveli qui capace di vincere anche la morte: dunque è il Signore di tutto, è Dio. Egli usa la sua potenza sempre e soltanto a beneficio degli uomini, e qui dimostra di amare la vita di cui è il creatore, implicitamente invitando gli uomini a fare altrettanto. Secondo le loro possibilità, è ovvio: che però sono molteplici. Ad esempio, relativamente alla morte, c'è quella inevitabile, ma ce ne sono tante evitabilissime; basti pensare a quelle causate dalle guerre, dalla fame, dalla droga, dall'imprudenza sulle strade e nei posti di lavoro, dallo sfruttamento di interi popoli, dall'inquinamento e dalla manipolazione delle risorse alimentari...

Le possibilità sono anche il ricorso a Dio. La speranza è una virtù, quando si accompagna alla fede autentica: quella fede che Gesù coglie nella donna e raccomanda a Giàiro; quella fede che si nutre di speranza e nel contempo non pretende, perché è aperta ad accogliere, quale che sia, la volontà di Dio.

Omelia di mons. Roberto Brunelli


Gesù guarda "oltre"

Paolo sta scrivendo per la seconda volta ai cristiani della comunità di Corinto, una delle più vivaci tra quelle da lui fondate: ricca spiritualmente, ricca da un punto di vista pastorale, ricca di attività e di gruppi (a volte fin troppo, viste le divisioni che c'erano al suo interno), ricca - con ogni probabilità - anche sotto l'aspetto materiale, dal momento che dal porto di Corinto passava una buona parte del commercio del Mediterraneo di quell'epoca. Tra i motivi di questa lettera (e lo notiamo nei versetti che abbiamo letto) c'è pure quello di esortare i cristiani di Corinto a condividere parte della loro ricchezza materiale con alcune situazioni di povertà e di emergenza di quel periodo, in particolare nei confronti dei cristiani della chiesa-madre di Gerusalemme, che si trovavano in un momento di forte indigenza. In questa esortazione alla solidarietà verso i bisognosi, Paolo sente la necessità di fare alcune precisazioni, due in particolare: "Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza"; e ancora: "Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza". Cosa significa questo, e quale relazione ha - come ricordavo all'inizio - con l'attualità che stiamo vivendo?...Paolo, ci ricorda come la carità non sia una questione di calcoli: non si tratta di "quanto" togliere a noi stessi per dare agli altri, ma solo "che ci sia uguaglianza", e che nessuno abbia troppo né troppo poco; non si tratta di "quando" fare la carità, perché le povertà, soprattutto le emergenze, ci si presentano senza preavviso, ed è sempre il tempo di aiutare e di fare del bene; non si tratta nemmeno di "stabilire delle priorità", perché - ce lo ricorda ancora Paolo - l'indigenza può colpire oggi gli altri e domani noi, anche lì, senza alcun preavviso. È vero che non è facile, oggi, essere solidali: ma è anche vero che dire "non è facile" rischia di divenire una scusa per giustificare la propria indifferenza e il proprio silenzio.

Oggi la Parola di Dio ci dà alcuni criteri: quello dell'uguaglianza (Paolo lo ribadisce almeno due volte, nel giro di pochi versetti) e quello della giustizia, che ci viene presentato dal brano di Vangelo attraverso due miracoli, strettamente collegati, oserei dire quasi intrecciati tra di loro. Sembrerebbero due episodi totalmente indipendenti l'uno dall'altro, se non fosse perché la guarigione della donna affetta da emorragia fa perdere del tempo prezioso a Gesù, che giunge in ritardo, ormai, alla casa di Giairo, non potendo così salvare sua figlia. Invece, il legame che li unisce è profondo: entrambi, infatti, danno l'opportunità a Gesù di darci una bella lezione sulla carità e sui criteri che ci devono guidare nell'essere solidali.

La donna affetta da emorragia da ben dodici anni (un numero che ricorda l'elezione, la predilezione di Dio verso l'uomo) compie qualcosa di veramente grave, nei confronti di Gesù: stando alle leggi di purità rituale del Levitico, il suo stato fisico la rendeva impura, e altrettanto era per chiunque l'avesse toccata, rendendo così entrambi "emarginati" dalla propria gente. Ma Gesù non ha paura della legge: esce allo scoperto, e fa uscire allo scoperto anche la donna, facendole raccontare tutto, perché tutti sappiano che entrambi sono andati contro la legge, ma che grazie a questo loro atteggiamento la donna è tornata a vivere. La carità e la solidarietà di Gesù vanno oltre la legge: la nostra carità e la nostra solidarietà, invece, spesso attendono che siano le leggi a dire a loro quando, come, quanto e verso chi devono agire. Ma la carità cristiana se ne fa un baffo della legge, e va oltre, perché guarda all'uomo.

La fanciulla (dodici anni, anche lei prediletta da Dio) di cui Gesù non riesce ad evitare in tempo la morte perché un'altra emergenza caritativa gli aveva fatto perdere tempo, non sarebbe mai potuta tornare in vita se Gesù avesse dato ascolto al "buon senso" dei familiari e degli amici di lei, i quali dicevano al padre: "Lascia perdere, non disturbare il Maestro, tua figlia è morta". Ci sono situazioni in cui continuare a sperare e a lottare pare davvero assurdo, ma la carità e la solidarietà di Gesù vanno oltre anche ogni speranza: la nostra carità e la nostra solidarietà, invece, di fronte alla disperazione, si rassegnano o addirittura cedono alle critiche e alle derisioni di chi ci prenderebbe per pazzi, qualora dovessimo andare contro la logica del buon senso.

Ci hanno provato anche con il Maestro: lo hanno deriso, quando ha ridato speranza ai genitori di quella fanciulla, ma il suo coraggio di andare "oltre" ha trasformato la speranza in certezza di vita. Gesù oggi ci ha dato una bella lezione di solidarietà. Solidarietà significa, per un cristiano, andare "oltre": oltre il criterio del "prima i nostri, poi gli altri"; oltre il criterio del "oggi non posso, ho altre priorità"; oltre il criterio del "applichiamo la legge", che tanto piace ai legislatori e ai politici di ogni colore e bandiera; oltre il criterio del "non vale la pena, un po' di buon senso non fa mai male".

Gesù ha un solo criterio, quello che ha il coraggio di guardare oltre: guarda oltre con gli occhi dell'uguaglianza, e ci ha insegnato a chiamarlo "carità".

Omelia di don Alberto Brignoli

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 28 giugno 2015

tratto da www.lachiesa.it