8 febbraio 2015 - V Domenica del Tempo Ordinario: Gesù, maestro di preghiera e di solidarietà

News del 07/02/2015 Torna all'elenco delle news

Il vangelo di questa quinta domenica del tempo ordinario ci presenta un duplice aspetto della vita di Gesù Cristo, nostro unico e vero maestro. Egli è una persona sensibile alle sofferenze degli altri e potendo agire nella direzione della guarigione, guarisce tutti coloro che sono affetti da malattie di ogni genere. Nel caso particolare lo vediamo all'opera nel guarire la suocera di Pietro. In poche parole Gesù viene incontro anche ai parenti dei suoi apostoli, non esclude nessuno dal suo progetto di amore e solidarietà verso i sofferenti. E va sottolineato che si tratta della suocera di Pietro e non della mamma di Pietro, a conferma dello stato coniugale di Pietro, a cui Gesù rivolge uno sguardo di speciale attenzione anche in questa circostanza. Il vangelo, infatti, ci ricorda solo questa guarigione dei parenti stretti degli apostoli. Non ve ne sono altre. Apparentemente la guarigione della suocera di Pietro potrebbe risultare di minore importanza rispetto ai grandi e straordinari miracoli che Gesù compie, in quanto nel caso della suocera di Pietro si tratta di curare una febbre altissima, che costringeva questa povera donna a stare a letto. In gergo medico la febbre è sempre manifestazioni di infezioni e infiammazioni e quando è elevata la febbre può anche portare alla morte. Quindi Gesù interviene per sanare una persona in estremo disagio di salute fisica. Nel linguaggio biblico, la febbre esprime una condizione di difficoltà spirituale, che se non è curata può portare alla morte interiore. E questo può riguardare in po' tutta la situazione interiore di una persona che si allontana da Dio e non viene più il suo rapporto con il Signore, mediante la preghiera e la contemplazione, mediante l'ascolto della parola di Dio e la concreta attuazione di essa nella propria vita.

Ma Gesù non si limita solo a guarire questa donna, ma anche tutte le persone che gli portano, dopo il tramonto, a sera inoltrata. E dal testo del vangelo di questa domenica possiamo ben affermare che Gesù operò guarigioni per tutta la notte. Tanto è vero che solo al mattino poté riposare ed immergersi nella preghiera.

E veniamo, ora, ad un altro aspetto della vita di Gesù Maestro: egli è davvero un esempio mirabile di preghiera e di comunione con il Padre. Lui Figlio dell'eterno Padre, avverte l'esigenza di ritirarsi tutto solo in preghiera a conclusione di un giorno di impegno evangelizzatore e di promozione umana. Nella preghiera c'è il ristoro dell'anima e chi non prega, ci ricorda Gesù, non potrà mai assaporare la gioia della comunione con Dio.

La preghiera di Gesù è forza per il suo cammino di evangelizzatore. Il testo del vangelo di oggi, infatti, dopo il momento di pausa orante che Gesù sperimenta tra la fine della notte e l'albeggiare, Gesù riprende il cammino lungo la Galilea, predicando la buona novella e guarendo ogni infermità, compresa quella della possessione diabolica.

Un Maestro attivo, dinamico, che va in cerca delle pecorelle smarrite e va incontro al bisogno di sapere e di guarire delle persone. Non è un Maestro chiuso in se stesso, autoreferenziale, ma uno aperto agli altri, aperto all'amore e alla solidarietà. Esempio per tanti maestri della fede e nella fede di tutti i tempi che invece di andare verso gli altri, vanno verso se stessi o al limite verso le persone alla quali sono interessati. Gesù va incontro a tutti, a vicini e ai lontani, ai parenti e agli sconosciuti, perché tutti per Lui e in Lui sono parenti se ascoltano la parola di Dio e fanno la volontà dell'Altissimo.

Una persona Gesù che fa il bene e vuole il bene di tutti. Alla luce di questo insegnamento si comprendono le altre due letture di oggi: la prima tratta dal libro di Giobbe e la seconda, ricavata dal vasto epistolario di San Paolo Apostolo, specificamente, dalla prima lettera ai Corinzi.

Giobbe ci ricorda la precarietà dell'esistenza umana e il tempo che passa e ci avvicina sempre di più all'eternità e all'incontro con il Dio giudice di amore e misericordia e non il controllore spietato delle cose che non sono vanno nella vita delle persone. Egli scrive: "I miei giorni scorrono più veloci d'una spola, svaniscono senza un filo di speranza. Ricòrdati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più il bene". Amara costatazione di come tante volte le nostre giornate scorrono nella totale banalità e non siamo capaci di fare il bene e di vedere il bene che pure esistenze intorno a noi. Siamo dei depressi interiori e spirituali chiusi in una visione pessimistica o nichilista dell'esistenza.

Per Paolo invece non è così e non dovrebbe essere così per tutti i cristiani. Non ci possono essere zona d'ombra nella vita dei credenti, ma tutto deve farsi luce e speranza. Egli è felice ed orgoglioso di annunziare il Vangelo e se non lo faceva, potremmo dire con esattezza, che stava male. La gioia dell'annuncio lo porta ad assaporare in se stesso la gioia della missione. Quanti Papi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici sperimentano la vera gioia cristiana nell'annunciare il vangelo anche in situazioni di gravi impedimenti e difficoltà. Non bisogna mai aver paura di annunciare Cristo e farlo in ogni tempo ed in ogni situazione, perché l'annuncio parte dalla gioia ed arriva alla gioia. E' un circolo di vera felicità spirituale che solo Dio può dare a chi parla di Lui e in nome di Lui e diventa il "profeta" ogni giorno in tutti i luoghi dove il cristiano svolge la sua missione. A questo atteggiamento di fondo, si aggiunga quanto l'apostolo scrive in questo bellissimo brano della prima ai Corinzi: "Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io". Quanto è bello pensare ad una chiesa missionaria ed evangelizzatrice sul modello Paolino ed oggi sul modello di Papa Francesco che incarni il messaggio cristiano con gesti veri di amore ed attenzione verso gli altri. Tutti dovremmo farci servi degli altri per portare a Cristo il maggior numero delle anime che lo cercano con cuore sincero e che spesso trovano in noi solo muri e muraglie di resistenze varie. Farsi debole con i deboli, essere vicini alla sofferenza ed ai bisogni dei fratelli, questo è l'annuncio del vangelo della gioia che deve permeare il cuore, la mente e l'azione di ogni discepolo del Signore.

Sia questa la nostra umile preghiera di oggi e il nostro proposito di bene che vogliamo assumere in questo giorno del Signore: "O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove, perché sull'esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva. Amen".

Omelia di padre Antonio Rungi

 

Tra le righe dei vangeli: una giornata di Gesù

Il vivace resoconto presenta dunque una giornata di Gesù, dal mattino di un sabato al successivo. Se la si vuole riassumere, essa è stata impegnata in tre attività: la preghiera, quella comunitaria nella sinagoga e quella privata in un luogo appartato; l'insegnamento, e le guarigioni, dall'"indemoniato" della sinagoga alla suocera di Pietro ai tanti radunatisi dopo il tramonto. Tre attività, che tracciano preziose indicazioni per quanti vogliono essere suoi amici e dunque suoi imitatori. Un cristiano, in quanto tale, non può prescindere dalla preghiera, comunitaria (quella che ha il suo vertice nella Messa) e privata (nelle mille forme possibili, secondo le circostanze e l'indole personale). Quanto all'insegnamento, qualcuno (sacerdoti, catechisti, genitori) è incaricato di compiti specifici; ma tutti devono sentire il dovere di testimoniare la fede professata, mediante l'esempio e, quando occorre, anche la parola. E circa le guarigioni, se nessuno ha il potere di risanare altri all'istante, tutti possono impegnarsi nel soccorso del prossimo, concorrendo ad alleviarne i disagi, fisici o psichici che siano. Gesù è il perenne modello; le circostanze della vita presentano mille modi in cui a quel modello ci si può ispirare.

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Mano nella mano con l'Infinito

Marco ci presenta il re­soconto della gior­nata-tipo di Gesù, ritmata sulle tre occupazioni preferite di Gesù: immerger­si nella folla e guarire, far sta­re bene le persone; immer­gersi nella sorgente segreta della forza, la preghiera; da lì risalire intriso di Dio e an­nunciarlo. Tutto parte dal do­lore del mondo. E Gesù toc­ca, parla, prende le mani. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l'inizio della buona notizia, l'annuncio che è pos­sibile vivere meglio, trovare vita in pienezza, vivere una vita bella, buona, gioiosa.

La suocera di Simone era a let­to con la febbre, e subito gli parlarono di lei. Miracolo co­sì povero di contorno e di pre­tese, così poco vistoso, dove Gesù neppure parla. Contano i gesti. Non cerchiamo di fronte al dolore innocente ri­poste che non ci sono, ma cerchiamo i gesti di Gesù.

Lui ascolta, si avvicina, si ac­costa, e prende per mano. Ma­no nella mano, come forza trasmessa a chi è stanco, co­me padre o madre a dare fi­ducia al figlio bambino, co­me un desiderio di affetto. E la rialza. È il verbo della ri­surrezione. Gesù alza, eleva, fa sorgere la donna, la ricon­segna alla sua andatura eret­ta, alla fierezza del fare, del prendersi cura.

La donna si alzò e si mise a servire. Il Signore ti ha preso per mano, anche tu fa lo stes­so, prendi per mano qualcu­no. Quante cose contiene u­na mano. Un gesto così può sollevare una vita!

Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pre­gava.

Un giorno e una sera per pensare all'uomo, una notte e un'alba per pensare a Dio. Ci sono nella vita sor­genti segrete, da frequentare, perché io vivo delle mie sorgenti. E la prima di esse è Dio. Gesù assediato dal dolore, in un crescendo turbinoso (la sera la porta di Cafarnao scoppia di folla e di dolore e poi di vita ritrovata) sa inven­tare spazi. Ci insegna a in­ventare quegli spazi segreti che danno salute all'anima, spazi di preghiera, dove nien­te sia più importante di Dio, dove dirgli: Sto davanti a te; per un tempo che so breve non voglio mettere niente prima di te; niente per questi pochi minuti viene prima di te. Ed è la nostra dichiarazione d'a­more. Infine il terzo momen­to: Maestro, che fai qui? Tutti ti cercano! E lui: Andiamoce­ne altrove. Si sottrae, non cer­ca il bagno di folla. Cerca al­tri villaggi dove essere datore di vita, cerca le frontiere del male per farle arretrare, cer­ca altri uomini per farli star bene.

Andiamo altrove a sollevare altre vite, a stringere altre ma­ni. Perché di questo Lui ha bi­sogno, di stringere forte la mia mano, non di ricevere o­nori.

Uomo e Dio, l'Infinito e il mio nulla così: mano nella mano. E aggrapparmi forte: è que­sta l'icona mite e possente della buona novella.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Debole per i deboli

La Liturgia della Parola di oggi e la settimana entrante, in cui si celebrerà la Giornata Mondiale del Malato in occasione della Festa della Vergine Maria di Lourdes, ci mettono di fronte al tema della sofferenza, quella fisica innanzitutto, così come tutti i vari tipi di sofferenza presenti nel mondo... la sofferenza diviene un grido di ribellione, di angoscia, a volte pure di protesta nei confronti di un Dio che invece di apparirci come padre, ci si presenta come un castigatore, o comunque come un freddo calcolatore di opere e giorni, pronto a tendere la spola della nostra vita e a farla correre sul telaio del mondo, senza che ci sia (come drammaticamente ci ricorda Giobbe nella prima lettura) "un filo di speranza". Perché - sono sempre parole sue - "un soffio è la nostra vita".

È vero che spesso Dio non risponde ai nostri interrogativi...Ma occorre avere anche la capacità di guardare oltre il buio della nostra sofferenza, soprattutto quando non è facile, e cogliere il filo di speranza che anche Giobbe fatica a cogliere per aggrapparci ad esso come ad un'ancora di salvezza. Perché in realtà il Vangelo di oggi ci parla di un Dio che si fa prossimo alle nostre sofferenze, a partire da quelle vicine a noi, quelle quotidiane, casalinghe (come fu per Simon Pietro, la cui suocera viene guarita da Gesù mentre le fa visita in casa), per giungere poi a tutti i malati e i bisognosi, condotti a lui da tutta la città per essere guariti. Quest'avverbio "tutti", che ritorna varie volte nel Vangelo di oggi, è ripreso anche da Pietro, che forse sull'onda dell'entusiasmo di aver portato nella sua città un uomo così grande, chiede al Maestro di farsi carico di tutti coloro che lo cercano. Ed è proprio perché tutti lo cercano che il Maestro pensa non solo alla piccola città di Cafarnao, ma a tutta la Galilea, dove vuole arrivare ad annunciare il Vangelo, perché è per quello che egli è venuto nel mondo. È bella, e carica di passione, quest'ansia di Gesù di predicare la buona notizia: un'ansia appassionata che è stato capace di trasmettere pure a Paolo, stando alle parole dell'apostolo nella seconda lettura: "Guai a me se non annuncio il Vangelo!".

La Liturgia della Parola di oggi trasmette il sapore della missione. A partire da un contesto di sofferenza come quello attualissimamente descritto da Giobbe, il discepolo di Gesù si fa - come il Maestro - attento alle sofferenze dei fratelli, di tutti i fratelli, senza fermarsi mai, senza sedersi, senza adagiarsi a contemplare le molte sofferenze alleviate, senza gloriarsi di quanto fatto, ma guardando sempre "oltre", "andando altrove", restando sempre "alla porta della città", "uscendo di casa quando ancora è buio": sono tutte espressioni del Vangelo di oggi, ma sono pure l'espressione di quella missionarietà della Chiesa che è una cosa sola con il discepolato.

"Discepoli missionari": è una delle espressioni più belle utilizzate da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, riprendendo il Documento Conclusivo di Aparecida dell'Episcopato Latinoamericano nel 2007. Non può rimanere una pura e suggestiva espressione, deve diventare un programma di vita, un'esigenza, o (per dirla con Paolo) "una necessità", "un incarico che ci è stato affidato", e di fronte al quale non possiamo vantare alcuna pretesa di ricompensa o di gratificazione. L'unica ricompensa che possiamo vantare è quella di poter continuare ad "annunciare gratuitamente il Vangelo, senza usare il diritto conferitoci dal Vangelo".

Permettetemi di concludere questa riflessione domenicale con una sorta di omaggio, anzi da adesso possiamo dire "di venerazione", dedicando le ultime parole della seconda lettura a quattro testimoni dei quali in questa settimana Papa Francesco ha autorizzato a promulgare il decreto di martirio. Oltre al più famoso e giustamente più venerato, l'Arcivescovo Oscar Romero (figura di riferimento ineludibile per chi vive e ama la Chiesa latinoamericana), sono stati riconosciuti martiri e presto saranno beati due Francescani Conventuali polacchi e un sacerdote Fidei Donum della mia Diocesi di Bergamo (il primo Fidei Donum beato, almeno in Italia... chissà se lo avremo come patrono??), don Alessandro Dordi, al cui ricordo sono particolarmente legato perché è originario del piccolo paesino nel quale da qualche anno svolgo parte del mio ministero sacerdotale, e nel cui cimitero attualmente riposa, in attesa - ora certa - della sua elevazione alla gloria degli altari. Chiedo scusa per questa digressione personalistica, ma credo che la testimonianza di fede debba essere anche testimonianza della nostra vita di ogni giorno, come siamo certi che don Sandro, padre Michele e padre Zbigniew, e Monsignor Romero, hanno eroicamente dimostrato di saper fare:

"Mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch'io".

Omelia di don Alberto Brignoli

 

Liturgia e Liturgia della Parola della V Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 8 febbraio 2015

tratto da www.lachiesa.it