21 settembre 2014 - XXV Domenica del Tempo Ordinario: occorre guardare oltre la stretta giustizia, fare nostro lo stile di Dio

News del 20/09/2014 Torna all'elenco delle news

Nel giorno in cui ricorre la festa annuale di San Matteo, l'apostolo al quale è attribuito il vangelo che si legge di norma nelle domeniche di quest'anno, appunto dal suo scritto (20,1-16) ci è proposta una parabola sul tema della giustizia di Dio. Ne è illuminante premessa la prima lettura (Isaia 55,6-9), in cui parlando a nome del Signore il profeta dichiara: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie".

Tante volte la Bibbia presenta uomini che non capiscono l'agire di Dio, e in base a calcoli umani lo contestano. Lo fa Giona, il quale non vorrebbe che Dio perdonasse agli abitanti di Ninive; lo fa il fratello maggiore del figlio prodigo, il quale trova ingiusto che il padre riaccolga e festeggi lo scapestrato pentito; lo fa Pietro - l'abbiamo sentito qualche domenica fa - alla prospettiva del suo Maestro messo a morte. Lo fanno, per continuare con gli esempi, alcuni personaggi del vangelo odierno.

E' la parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna. Con i primi, ingaggiati all'alba, il padrone concorda la paga di un denaro per il lavoro della giornata; ne chiama poi altri nelle ore successive, sino alle cinque del pomeriggio, impegnandosi a dare loro il giusto compenso. Alle sei, finita la giornata, dà ordine al fattore di dare a tutti la paga, cominciando dagli ultimi. Tutti ricevono un denaro, e i primi si lamentano: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!" Il padrone allora spiega a uno di loro: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Se voglio dare altrettanto agli altri, non posso disporre del mio come voglio? Sei forse invidioso perché io sono buono?

Nel padrone della parabola è facile riconoscere Dio, e negli operai gli uomini, chiamati da lui a "lavorare" per lui, a vivere in sintonia con lui. I primi chiamati furono gli appartenenti al popolo eletto, i discendenti di Abramo, i quali al tempo di Gesù si meravigliavano delle sue aperture agli "indegni" (i pubblici peccatori e gli appartenenti ad altri popoli) cui offriva le stesse prospettive. Anche oggi qualcuno considera ingiusto che una persona vissuta a combinarne d'ogni colore, se magari all'ultimo momento si converte, possa andare in paradiso al pari di chi per tutta la vita si è mantenuto fedele. A quanti, allora come oggi, trovano ingiusto il suo comportamento, Gesù vuole far comprendere che quella della giustizia non è la regola più alta. Il padrone della vigna non viola la giustizia: dà ai primi quanto pattuito; ma la supera, con la generosità.

Gli operai ingaggiati all'alba non considerano che essere chiamati a lavorare e ricevere una paga, da disoccupati quali erano, è già una fortuna: un dono di Dio, una grazia. Nulla ci è dovuto, nessun diritto gli uomini possono accampare davanti a Dio. Tutto è grazia; tutto quanto abbiamo di bello e buono, l'abbiamo ricevuto in dono; di tutto dobbiamo essere riconoscenti, e il modo sta nel cercare di fare nostro lo "stile" di Dio. Nella vita pubblica, come nei rapporti privati, troppe volte anche i cristiani si limitano a praticare e pretendere ciò che è, o ritengono, giusto. Dimenticano che la giustizia, per un cristiano, non è abbastanza; l'insegnamento e l'esempio del Maestro invitano non a negarla ma a non chiudersi in essa, ad andare oltre, con l'amore.

Come sarebbe diverso il mondo, se ce ne ricordessimo più spesso! Quante liti, quanti rancori sparirebbero, se invece di atteggiarci a ragionieri che conteggiano minuziosamente ragioni e torti, ci lasciassimo guidare dalla generosità! Non dimentichiamo quante volte Dio ha passato un colpo di spugna sulle nostre offese a lui. Non dimentichiamo di dare attuazione a parole pronunciate spesso con troppa leggerezza: Rimetti a noi i nostri debiti, "come noi li rimettiamo" ai nostri debitori.

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Dio non si merita, si accoglie

Il Vangelo è pieno di vigne, forse perché fra tutti i campi, la vigna è il preferito di ogni contadino, quello che coltiva con più cura e intelligenza, in cui si reca più volentieri. Questa parabola ci assicura che il mondo, il mondo nuovo che deve nascere, è vigna e passione di Dio; che io sono vigna e passione di Dio, il suo campo preferito, di cui ha cura uscendo per ben cinque volte, da un buio all'altro, a cercare operai.

Il punto di svolta del racconto risiede nel momento della paga: comincia dagli ultimi della fila e dà a chi ha lavorato un'ora sola lo stesso salario concordato con quelli dell'alba. Finalmente un Dio che non è un «padrone», nemmeno il migliore dei padroni. Non è un contabile. Un Dio ragioniere non converte nessuno. È un Dio buono (ti dispiace che io sia buono?). È il Dio della bontà senza perché, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le regole del mercato. Un Dio che sa ancora saziarci di sorprese. «E mentre l'uomo pensa secondo misura, Dio agisce secondo eccedenza» (cardinale Carlo Maria Martini). Non segue la logica della giustizia, ma lo fa per eccesso, per dare di più. Vuole garantire vite, salvare dalla fame, aggiungere futuro. Mi commuove questo Dio che accresce vita, con quel denaro immeritato, che giunge benedetto e benefico, a quattro quinti dei lavoratori.

Gli operai che hanno lavorato fin dal mattino protestano, sono tristi, dicono «non è giusto». Non riescono a capire e si trovano lanciati in un'avventura sconosciuta: la bontà: «ti dispiace che io sia buono?». È vero: non è giusto. Ma la bontà va oltre la giustizia. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Neanche l'amore è giusto, è altra cosa, è di più. Perché non si accende la festa davanti a questa bontà, perché non sono contenti tutti, i primi e gli ultimi? Perché la felicità viene da uno sguardo buono e amabile sulla vita e sulle persone. Se l'operaio dell'ultima ora lo sento come mio fratello o mio amico, allora sono felice con lui, con i suoi bambini, per la paga eccedente. Se invece mi ritengo operaio della prima ora e misuro le fatiche, se mi ritengo un cristiano esemplare, che ha dato a Dio tanti sacrifici e tutta la fedeltà, che ora attende ricompensa adeguata, allora posso essere urtato dalla retribuzione uguale data a chi ha fatto molto meno di me. Drammatico: si può essere credenti e non essere buoni!

Nel cuore di Dio cerco un perché al suo agire. E capisco che le sue bilance non sono quantitative, davanti a Lui non è il mio diritto o la mia giustizia che pesano, ma il mio bisogno. Allora non calcolo più i miei meriti, ma conto sulla sua bontà. Dio non si merita, si accoglie!

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Non è mai troppo tardi per l'Amore

Dio non conosce limiti di tempo nel concedere la sua misericordia e nel retribuire le sue ricompense a chi gli si mostra fedele. E soprattutto nel fare questo si mostra ben distante dalle congetture e dalle valutazione propriamente umane. Se stiamo al sistema remunerativo tutelato dai nostri sindacati odierni, effettivamente le ragioni di questa protesta parabolica sono legittime: chi ha lavorato un' intera giornata non può essere pagato come chi ha svolto una sola ora di servizio e chi ha affrontato il caldo, la sete, la fatica stremandosi per oltre 10 ore va pagato ben più di chi si è affannato solamente poco tempo, e per di più nei periodi più confortevoli della giornata, per quanto riguarda il clima.

Così in effetti, obiettivamente, le rimostranze di questi lavoratori nei confronti del padrone della vigna hanno le loro giustificazioni. Tuttavia una moneta era la paga giornaliera di ogni lavoratore dell'epoca, sia che lavorasse un'ora sia che si impegnasse per l'intera giornata (Tb 5, 14). Il padrone della vigna quindi non fa' torto a nessuno. Piuttosto constata che nei suoi riguardi vi sia un mormorare alquanto meschino e infantile da parte di chi ha invidia che egli usi lo stesso metro con tutti, mostrando bontà e comprensione nei confronti di ciascun lavoratore. Ciò che egli considera non è infatti quanto tempo ciascuno abbia lavorato, ma quanto zelo e quanta buona volontà ha esternato nell'eseguire il servizio. In un'altra parabola relativa all'argomento vigna Gesù giustificava il lavoratore inizialmente negligente che poi si ravvedeva e andava a lavorare, contro la pigrizia dell'altro bracciante che in un primo momento si mostrava disposto ad andarvi e poi non vi andava più. Il primo era degno di ammirazione, l'altro meritorio di biasimo. Ciò che conta infatti è il ravvedimento, la presa di coscienza del proprio errore e la buona disposizione a porvi rimedio. In una parola la conversione. Non è mai troppo tardi per rispondere alla chiamata che Dio ci rivolge alla comunione con sé e alla pratica della fede, della speranza e della carità. Ciascuno ha sempre tempo per emendarsi dal proprio errore e chiunque risponda, sia pure tardivamente, all'appello alla conversione, guadagnerà ricompensa proporzionata a pari merito di coloro che vi avranno dato risposta sin dall'inizio. Più che calcolare la spettanza remunerativa, gli operai dovrebbero preoccuparsi di rispondere con prontezza all'appello divino alla conversione, instaurando relazioni di familiarità e di amicizia con Dio. E Dio premierà tutti quanti avranno lavorato nella sua vigna, dal primo all'ultimo, secondo una ricompensa proporzionata alla fedeltà e rientrante nella logica del suo amore misericordioso. Ascoltare la Parola del Signore e affidarsi a lui in ogni circostanza ottemperando a qualsiasi cosa egli ci chieda è l'invito perentorio del profeta Isaia (I lettura), che con toni esortativi ci invita ed entrare in comunione di familiarità con il Dio che dona la salvezza e la vita e che concederà la prosperità del "vino e latte" in abbondanza a quanti si saranno accostati a lui con ogni premura e spontaneità. La conversione deve essere il nostro obiettivo primario e non può non interessare la Chiesa per intero oltre che il singolo soggetto fedele e l'accoglienza franca e calorosa di chi ha accolto l'appello del Signor dovrebbe essere il contrassegno del nostro stesso essere Chiesa, comunità Santa ma peccatrice, che necessita di convertirsi mentre gioisce per i fratelli animati da seria intenzione di cambiamento.

Non è raro invece che si assuma l'atteggiamento degli abili calcolatori del lavoro ad ore, soprattutto quando manchiamo di usare attenzione e gioia nei confronti di quanti accedono al Signore dopo un lungo itinerario di conversione, reduci da nefaste esperienze. Ci si atteggia con sospetto e circospezione nei loro confronti, si evita ogni profondità di contatto e ci si defila nelle confidenze. Eppure proprio le conversioni più tardive e ritardate risultano essere spesso le più edificanti e dovremmo mostrare anzi ammirazione e contentezza per quei fratelli che si accostano alla Chiesa dopo un lungo passato turbolento e discutibile: sono certamente i veri convertiti, che hanno fatto esperienza del male per poter apprezzare il bene e comunicarlo agli altri.

Per essere più concreti, non è raro che succeda tante volte quanto si descrive nel capolavoro manzoniano de "I promessi sposi" quando il Card. Borromeo alla presenza di Don Abbondio elogia e incoraggia l'Innominato convertito di recente esultando con lui per l'avvenuto cambiamento radicale di vita, ma provocando in questo la gelosia del timido curato che in ciò vede una discriminazione nei suoi confronti ("Lo tratta con molte più attenzioni di me, che sono sempre stato suo fedele servitore...")

Dio è imparziale con tutti e nella sua giustizia retributiva intende garantire a ciascuno il premio proporzionato delle nostre fatiche nonché la gioia di vivere sempre nel suo nome insomma intende proporsi a tutti come il Dio della gioia e della salvezza universale che chiama tutti alla riconciliazione con sé e alla comunione nella gioia e nella vita piena.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Dio non premia, Dio ama

Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece "sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni" (Mt 5,45), offrendo a tutti il suo amore. Un Dio del genere sembra ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15)...Dio non dà secondo i meriti ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un premio, ma come un regalo. Quel che motiva il suo agire è la necessità dell'uomo, la sua felicità. Dio non guarda il merito ma il cuore. E Lui vuole amare tutti.

Per chi dice Gesù questa parabola? Innanzitutto per gli apostoli. Cosa succede infatti prima di questa parabola? C'è Pietro che parla a nome di tutti gli apostoli e dice a Gesù: "Ecco noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito; che ne avremo dunque?" (Mt 19,27). Pietro ragiona secondo la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga "la colpa dei padri nei figli, e nei figli dei figli fino alla terza e quarta generazione" (Es 34,7; Nm 14,18). Pietro e amici (gli apostoli) rivendicano un trattamento particolare: noi siamo con te, avremo di più, ovviamente! Noi che facciamo questo, siamo meglio degli altri!

Ma Gesù non aveva detto così. Gesù aveva detto: "Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguiteranno, affinché diventiate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli infatti fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt 5,44-45). Gesù aveva detto: "Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi". Gli apostoli, invece: "Eh no, Dio ci amerà di più visto che lo seguiamo!".

Il messaggio per gli apostoli è duplice e chiaro.

1. Accompagnare non è seguire. Gli apostoli accompagnavano Gesù, stavano sempre con lui, ma non lo seguivano. Seguire è far penetrare il messaggio nel proprio cuore.

2. Dio ama tutti. Voi non siete migliori degli altri. Dio non premia secondo la bravura, l'obbedienza o la coerenza delle persone. Il suo amore è sempre e per tutti.

Gesù poi questa parabola la dice per gli ebrei. Quelli della prima ora sono i Giudei: il popolo ebraico aveva stipulato con Dio un'alleanza. Era un contratto: loro seguivano Dio e Lui li avrebbe scelti, preferiti, fra tutti. Gli ebrei, il popolo eletto, si ritenevano più in diritto verso gli altri. Infatti, fin da Mosè, fin da Abramo, loro avevano seguito il Signore. Per questo si ritenevano i prediletti, i migliori, i preferiti, i prescelti da Dio. Con Gesù cambia tutto questo. Gesù dirà chiaramente ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo: "I pubblicani e le prostitute vi passano davanti nel regno di Dio" (Mt 21,31). E per i pii e i religiosi del tempo era difficilissimo (impossibile!) accettare questo: che Dio potesse amare e accogliere quelli che la religione rifiutava.

Ma c'è qualcosa di più profondo. Nel vangelo di Mt sette volte si dice: "Venuta la sera" (Mt 8,16; 14,15.23; 16,2; 20,8; 26,20; 27,57). Quando viene sera accade sempre qualcosa di importante. "Venuta la sera" è l'espressione adoperata per l'eucarestia (anche la moltiplicazione dei pani, brano eucaristico avviene "venuta la sera" Mt 14,15). Questo vuol dire che ciò che si dice qui si riferisce all'eucarestia. Nell'eucarestia Gesù accoglie tutti, tant'è vero che nell'ultima cena Gesù accoglie anche Giuda, e sa che lo tradirà! L'eucarestia, allora, non è un incontro per eletti, per santi o per giusti. Ma è un incontro per tutti quelli che vogliono ricevere l'amore di Dio, che si posa su tutti, perché Lui vuole darsi a tutti, buoni e cattivi, giusti e ingiusti, vicini e lontani. La mentalità del merito ci fa pensare proprio così: "Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo... io ho fatto quello...", vuoi che Dio non mi ami di più? No, Dio non ti ama di più. Dio ti ama. E, come te, ama anche tutti gli altri.

Cosa può dire a noi questo vangelo? La domanda finale vale per tutti noi: "Tu sei invidioso perché io sono buono?".

Non ci capita di "prendercela" perché qualcuno preferisce qualcun altro a noi? Non ci capita di arrabbiarci perché altri sono più fortunati di noi? Non ci capita di "attaccarcela all'orecchio" perché qualcuno ha invitato altri e non noi? Non ci capita di dire: "Con tutto quello che io ho fatto per lui!"? Non ci capita di vedere gli altri migliori di noi: più belli, più intelligenti, più fortunati, più "avanti"?

Se pensi che il mondo sia fatto di scale, passi il tempo a sgomitare sui gradini, cercando di salire più in alto e di essere superiore agli altri.

Omelia di don Marco Pedron

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)