12 febbraio 2012-VI Domenica del Tempo Ordinario: ci sono, in noi, tante lebbre da guarire...

News del 11/02/2012 Torna all'elenco delle news

La pagina del Vangelo che la Liturgia di questa domenica ci fa leggere (Mc.1,40-45), ci chiede una notevole attenzione: siamo di fronte ad una tipica pagina di Marco, essenziale nello stile narrativo, ricchissima di contenuti solo accennati e lasciati alla intelligenza del lettore da comprendere e da approfondire. Siamo di fronte ad una pagina tutta concentrata sulla figura di Gesù, non facile da capire, persino sconcertante, ma proprio per questo importante per il cammino di fede che Marco ci guida a compiere.

"Un lebbroso viene verso di Lui, supplicandolo e dicendogli: "Se vuoi, puoi rendermi puro". Il racconto di Marco comincia con il presentarci la figura di questo lebbroso che prende l'iniziativa, agisce, parla e si muoverà sino alla fine di testa propria non ascoltando ciò che Gesù gli dice. Non è di facile interpretazione questa figura che Marco propone: un esempio da imitare, o una condotta da condannare? Questa complessità si riflette nella diversità con cui le antiche tradizione del testo descrivono la reazione di Gesù di fronte alla domanda del lebbroso. Il testo che noi leggiamo dice: "e mosso a compassione." ma altri antichi manoscritti dicono: "essendo andato in collera." Gesù, dunque, di fronte al lebbroso si è commosso oppure si è adirato? Gli esperti di "critica del testo" affrontano la questione e, secondo le regole di questa scienza, tendono a privilegiare la lettura che noi scartiamo: "essendo andato in collera". Questa lettura troverebbe conferma dalla reazione di Gesù dopo l'azione di purificazione: "fremendo contro di lui, lo cacciò via subito". Perché, dunque, questo atteggiamento di Gesù? Certo, Marco ce lo presenta in modo non facilmente ed immediatamente riconducibile ad interpretazioni pie e devozionali. Presentandoci poi la realtà dei fatti, non ce ne dà l'interpretazione, lasciandola aperta alla sensibilità e all'intelligenza di ogni lettore: in questo modo Marco ci educa alla fede. Probabilmente, la reazione di Gesù dipende dall'atteggiamento del lebbroso che pretende che Lui lo liberi della situazione di separazione dagli altri. Nel lebbroso, che la Legge condanna alla separazione, possiamo vedere la situazione dell'uomo incapace di relazioni vere con gli altri, dell'uomo che non accetta il proprio limite e che pretende da Dio il superamento.
La chiave di interpretazione sta, dunque nella "preghiera" formulata dal lebbroso: "Se vuoi, puoi rendermi puro". Preghiera o pretesa? Affidamento a Dio o tentazione? L'invocazione del lebbroso è così simile a quella di Gesù nel Gethsemani: "Padre, ogni cosa ti è possibile. Allontana questo calice da me! Ma non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu!" Sono così simili le due invocazioni eppure tra di loro c'è un abisso! Quella di Gesù è una invocazione filiale, drammatica, rivolta al "Padre"; è un riconoscimento dell'onnipotenza di Dio, che rimane misteriosamente "altra" in rapporto all'invocazione così umana del "Figlio", che pure sa di poter dire tutto, con estrema libertà, al Padre; è un affidamento totale di sé alla volontà del Padre che il Figlio sa essere volontà di amore. Quella del lebbroso è invece una secca richiesta, nella perfetta logica umana: ha visto Gesù parlare e agire "con autorità" e quindi sa che "egli può", se può deve solo volerlo e perché non dovrebbe volerlo, Lui che sta sempre dalla parte dei deboli? Quello che il lebbroso vuole è solo un atto "potente", che rompa gli schemi, che faccia in modo che lui, persona emarginata per i suoi limiti, possa andare "a predicare molte cose e a divulgare la parola". Il lebbroso non ha capito che la "autorità" di Gesù è solo l'amore con cui Egli si abbassa per condividere la fragilità e renderla piena di vita, non per cancellarla ed esibire una umanità autosufficiente; non ha aperto a Gesù il suo cuore per poter lasciarsi amare da Lui e quindi la sua vita non è cambiata neppure quando Gesù lo ha purificato. Questo può spiegare la reazione adirata di Gesù (e quanto pedagogica anche per noi, oggi!) il quale tuttavia non rimane condizionato dalla incomprensione del lebbroso: Gesù, pure in collera, non viene meno al suo amore per lui, alla compassione per un uomo che vuole uscire dalla sua sofferenza.
Marco descrive la guarigione del lebbroso da parte di Gesù, con i suoi gesti e le sue parole: "stese la sua mano e lo toccò e disse: Lo voglio, sii purificato". L'eccezionalità del fatto è sottolineata dai due verbi: "stese la mano e lo toccò", che esprimono la partecipazione umana e la libertà di Gesù che non teme il contatto che avrebbe prodotto impurità: Gesù è libero; egli sa che l'impurità del lebbroso non può contaminare, mentre il suo amore è contagioso e può guarire.
Le parole che accompagnano i gesti sono estremamente sintetiche e di grande peso: "Lo voglio, sii purificato"; lette, non solo in relazione con il fatto narrato, esprimono la visione programmatica di Gesù. Egli vuole (è un imperativo) una umanità libera, non schiava di contaminazioni, di limitazioni, di emarginazioni, ben al di là di quanto gli uomini vogliano, ben oltre ciò che questo lebbroso vuole.
Così questa pagina evangelica mette sempre più in evidenza il contrasto tra la radicalità di Gesù e la fragile e impaurita limitatezza umana: Gesù vuole una umanità libera e realizzata e per questo ama l'umanità chiamata a credere per sperimentare l'amore.
Marco ci mostra Gesù che vuole la guarigione e la purificazione del lebbroso ma pure che, "fremendo contro di lui, lo scacciò via subito e gli disse: "Fa' attenzione! Non dire niente a nessuno, ma va' tu stesso a mostrarti al sacerdote.": in questo modo diventa evidente la preoccupazione pedagogica di Gesù. Pedagogico è anzitutto lo sdegno con cui Gesù reagisce, perché il lebbroso guardi dentro di sé e chiarisca a se stesso i motivi per cui sta agendo. Gesù ha provato compassione per lui, lo ha toccato, lo ha liberato dalla emarginazione: ormai non è più un ammalato che ha bisogno di cure ma una persona, soggetto delle proprie azioni. Gesù lo spinge a reimmergersi nel cerchio delle relazioni sociali ("vai, mostrati tu al sacerdote, offri.come testimonianza per loro"), lo vuole libero perché liberi gli altri. Deve mostrare che il suo corpo non è più segnato negativamente, e per questo ha bisogno di un riconoscimento istituzionale. Ma poi, deve tacere: Gesù non vuole pubblicità, non vuole che si confonda l'annuncio del "Vangelo" con l'entusiasmo, con la meraviglia suscitata dalla diffusione dei miracoli, non vuole che si confonda la fede in Lui con l'illusione di aver trovato la soluzione miracolistica dei propri problemi.
L'ambiguità che continua dall'inizio del racconto, qui raggiunge il culmine. "Ma quello, uscito, cominciò ad annunciare molte cose e a divulgare la parola". La pedagogia di Marco riguarda adesso l' "evangelizzatore": "comincia", con questo lebbroso sanato, il rischio di un grande equivoco, quello di scambiare l'evangelizzazione con il dire molte cose che, con la loro abbondanza, saturano lo spazio dell'ascolto e non lasciano a Gesù la possibilità di farsi sentire, o con il rumore dei mezzi di comunicazione che toglie lo spazio alla proclamazione del Vangelo.
In modo acuto, Marco avverte che l'iniziativa di quest'uomo, il suo affannarsi nell'annunciare molte cose, è di impedimento alla possibilità di Gesù di entrare e di manifestarsi nella città.
Il Vangelo parla a noi, oggi, assicurandoci che Gesù ci scuote, ci sveglia e nonostante le nostre ambiguità, continua a correggerci, perché ci ama e vuole che nella relazione vera con Lui troviamo la fonte della nostra autentica libertà. 
mons. Gianfranco Poma
Fa' attenzione! Non dire niente a nessuno
 

Il nostro è il Dio della compassione

Non ha nome né volto il leb­broso, perché è ogni uo­mo, voce di ogni creatura. Con tutta la discrezione di cui è ca­pace dice solo: se vuoi, puoi gua­rirmi. Il suo futuro è appeso ad un 'sé seminato nel cuore di Dio.
A nome nostro il lebbroso chiede: che cosa vuole Dio per me? Cosa vuole da questa carne sfatta, da questo corpo piagato, da questi an­ni di dolore? Gli scribi di ogni epoca ripetono che il dolore è punizione per i pec­cati, o maestro di vita, o imper­scrutabile volontà di Dio. Per loro Giobbe è un caso teologico. Ma in quella teologia Dio è assente. La fede del lebbroso invece palpita: Dio è il Dio della compassione o non è!
Cosa vuoi per me? Quello che di­cono gli scribi o vuoi guarirmi? La svolta del racconto non è conte­nuta in una riflessione, ma in un verbo che indica l?essere preso al­lo stomaco, dice di una mano che ti stringe le viscere: provò com­passione. Per i sacerdoti il lebbro­so è un caso, per Gesù è una lama nella carne. Per gli scribi è un teo­rema, per lui è un fremito, che muove e genera gesti, che fa qua­si violenza alla mano, la fa stende­re, la fa toccare. La mano parla prima della voce, le dita sono più eloquenti delle pa­role: Gesù rompe i tabù, toccare il lebbroso è diventare impuro per la legge. Ma per lui l?uomo è sempre puro e vale più della legge. Una ca­rezza più della legge. È l?eloquen­za di toccare il male tremendo: da troppo tempo nessuno toccava più il lebbroso, per paura, per ribrez­zo, per obbedienza alla legge. E la sua carne moriva di solitudine, il suo cuore moriva di assenze.
La guarigione comincia quando qualcuno si avvicina e mi tocca con amore, mi parla da vicino, non ha paura, patisce con me. Il dolore non domanda spiegazioni, vuole partecipazione.
Sentirsi toccati è una delle espe­rienze più belle e vitali. Chi sa toc­carti davvero, chi sa sfiorare il tuo intimo di luce o di piaga, questi so­lo lascia tracce di vita, è il tuo gua­ritore.
La parola, una voce per esistere dentro il vuoto, viene dopo: lo vo­glio, guarisci! Eternamente Dio vuole figli guariti. A me, a Lazzaro, alla figlia di Giairo, alla suocera di Simone ripete: lo voglio, alzati, guarisci.
Dio è guarigione. Dal male di vive­re. Non ne conosco tutti i modi concreti, ma so per certo che non accadrà moltiplicando interventi miracolosi. Non conosco i tempi, ma so che egli rinnoverà battito su battito il cuore, stella su stella la notte. Con la compassione, con un gesto, con una voce ? che toccano ? una carezza ? l'abisso del dolore

Omelia (15-02-2009)
padre Ermes Ronchi 
 

 Liturgia della Parola della VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B): 12 febbraio 2012