Più forte della Morte è l'Amore
News del 08/04/2011 Torna all'elenco delle news
Chi non ha sperimentato la malattia grave - e in molti casi terminale - di una persona cara o di un amico?
E chi di noi non ha sperimentato, di fronte a questa situazione, un senso di smarrimento, di frustrazione, di angoscia, di sconfitta?
Non sapere cosa fare, né cosa dire, né come comportarsi in sua presenza o in presenza dei familiari più stretti… Rari, rarissimi sono i casi in cui una malattia terminale viene vissuta dal diretto interessato e dai suoi cari con una serenità in grado non solo di riuscire a non far sentire gli altri in imbarazzo, ma addirittura di trasmettere loro un senso di tranquillità e di pace. Occorrono dei doni particolari, oserei dire soprannaturali, per riuscire a vivere con tranquillità una malattia che porta alla morte.
Qualsiasi uomo, per quanto forte possa essere, di fronte alla propria esistenza che sta per spegnersi e della quale prende coscienza, è messo a dura prova.
E ognuno reagisce in maniera diversa: c'è chi tace, c'è chi si dispera, c'è chi soffre più per il pensiero dei propri cari lasciati presto soli che per se stesso, chi impreca contro la Vita e contro Dio, chi si rinchiude nella propria depressione, chi lotta fino all'ultimo convinto di potercela fare, chi invece sin dall'inizio non ce la fa', e poi gioca d'anticipo sulla morte…
Non potremo mai sapere, perché il Vangelo di Giovanni non ce lo dice, come Lazzaro di Betania abbia reagito di fronte alla malattia che lo ha portato alla morte.
Sappiamo però come Maria e Marta, le sue amatissime sorelle, hanno vissuto quei momenti: sia quelli precedenti che quelli immediatamente successivi alla sua scomparsa. Sentono che la malattia del fratello è troppo impegnativa per essere vissuta in solitudine: e allora, nonostante a quei tempi le difficoltà nella comunicazione fossero oggettive, fanno avvisare l'amico del cuore, quello che passava da casa loro ogni volta che dalla Galilea scendeva in Giudea, quello che per loro aveva sempre una parola di saggezza, quello che "imbambolava" Maria al punto da venire entrambi rimproverati da Marta, quello che amava le due sorelle e il loro fratello di Betania in una maniera tutta particolare.
Gli mandano a dire che Lazzaro sta male, che stavolta non ce la farà… chissà, magari lui può fare qualcosa, magari lui arriva dove i medici non hanno potuto… la cura dell'amore è capace di fare cose ben più straordinarie della medicina e della scienza.
Ma il Rabbì, il Maestro di Galilea, l'amico del cuore, reagisce in modo misterioso: coglie da subito la gravità della situazione, eppure non si precipita affatto a salutare l'amico per l'ultima volta. "Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava": nessuna fretta, a quanto pare! Chissà, forse temeva ancora i Giudei che al capitolo precedente avevano cercato di arrestarlo per via del cieco guarito in giorno di sabato e per i suoi discorsi sul Buon Pastore e sulle false guide. Era certamente più prudente stare al di qua del Giordano, in territorio neutrale, fuori dalla giurisdizione dei Sommi Sacerdoti.
Ma così non andava bene: avrebbe voluto dire sottrarsi al suo dovere di amico, e soprattutto di Maestro e di Figlio di Dio.
E allora, due giorni dopo, si decide a tornare in Giudea: ma non è certo la malattia terminale di Lazzaro che lo preoccupa. Sa bene che Lazzaro è morto, e lui ci arriva quando "Lazzaro già da quattro giorni era nel sepolcro"; quattro giorni che sommati ai due di attesa fanno sei. E al "sette" ne manca ancora uno… anche alla donna di Samaria mancava il "settimo" uomo, e arriva proprio lui a cambiarle la vita… anche al cieco nato mancava la luce, e lui gliela dona il "settimo" giorno… nemmeno la morte, allora, può mettere il suo sigillo sulla tomba di Lazzaro il "settimo" giorno, perché l'ultima parola, la "settima", sarà una Parola di Vita.
Ha una forza impressionante, la Parola di Vita del Maestro. È la forza dell'Amore. Ed è un Amore talmente forte che smuove ogni cosa.
È eterno e irremovibile, ma attira a sé ogni cosa; l'Amor che move il sole e l'altre stelle - come lo chiamerà Dante - è sufficiente che sia udito perché muova Marta, la solita intraprendente Marta, a fare tre chilometri di corsa per andare da lui a chiedergli di continuare a supplicare Dio, che "qualunque cosa gliela concederà" perché lui è "il Cristo, il Figlio di Dio".
E poi muove Maria, chiusa come suo solito nella contemplazione, questa volta del dolore. Lei non chiede: lei si getta ai piedi, e supplica, e grida a Gesù il suo dolore, e come già Marta prima, quasi lo rimprovera per non essere stato lì prima.
Ora però è tutto inutile. Inutile fare commenti, inutile dire "ma", "però", "se"… inutile criticare chi fa miracoli solo quando gli fa comodo…
Tutto inutile. Lazzaro non c'è più. Forse c'è spazio solo per il versetto 35 di questo meraviglioso capitolo 11 di Giovanni. Uno dei versetti più genuinamente umani, ma insieme squisitamente divini, di tutta la Cristologia biblica: "Gesù scoppio in pianto".
Perché questo è il Dio di Gesù Cristo, e questa è la sua forza: la compassione per le miserie umane, la condivisione del dolore dove c'è dolore, la condivisione del pianto dove c'è pianto.
È di questo Dio che abbiamo bisogno, perché la forza della sua compassione non può essere vinta.
Non c'è grotta tanto profonda e oscura da non poter essere violata; non c'è pietra tanto grande che non possa essere rimossa, non c'è cadavere così maleodorante che possa ributtare indietro, perché non c'è morte che non possa essere vinta da questo Amore.
E non importa se violare un sepolcro è un sacrilegio contro la legge della purità, non importa se questo "sacrilegio" è una firma in bianco sulla propria condanna a morte, redatta pochi versetti più avanti, nel Tempio, da Caifa e compagni: questo Amore, anche se muore, porta molto frutto.
Come un chicco di grano caduto in terra.
Appuntamento a Pasqua, allora, di buon mattino, nonostante il venerdì sul Golgota.
Testo di don Alberto Brignoli