24 marzo 2011: XIX Giornata di preghiera e di digiuno per i missionari martiri

News del 21/03/2011 Torna all'elenco delle news

Il 24 marzo - giorno dell’assassino di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso mentre celebrava la santa Messa- la Chiesa Italiana celebra la giornata di preghiera e digiuno facendo memoria dei missionari martiri e di quanti ogni anno sono stati uccisi solo perché incatenati a Cristo. La ferialità della loro fede fa di questi testimoni delle persone a noi vicine, modelli accessibili, facilmente imitabili.

Nel corso dell'anno 2010 sono stati 23 gli operatori pastorali uccisi durante il loro servizio: 1 vescovo, 15 sacerdoti (13 diocesani e 2 di istituti religiosi), 1 religioso, 2 seminaristi, 1 religiosa e 3 laici provenienti perlopiù dal continente americano (14) e poi dall'Asia (5), dall'Africa (2) e dall'Europa (2 tra cui l italiano: il vescovo mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell'Anatolia ucciso nel giugno scorso a Iskenderun).

Restare nella speranza è il tema della giornata di quest'anno.
"Il tema della speranza è stato rivisitato spesso nell’ultimo decennio con esplicito riferimento al nostro continente europeo: lo si è fatto per segnalare che la speranza sembra lasciare i nostri paesi e le nostre città, che i giovani rischiano sempre più di consegnarsi all’“attimo fuggente” privo di futuro, che le stesse comunità cristiane si ripiegano al loro interno senza annunciare più il futuro di Dio, che solo può illuminare il presente.
Arruolare i martiri sotto il segno della speranza è certamente un’impresa ardita: il martire è per definizione colui che vede interrotta in maniera brusca una parabola di vita, spesso un’esistenza densa di sapienza, di amore, di dono di sé. Il martire in ogni caso porta con sé uno scandalo, come una prova fatale che Dio propone a lui, ai suoi amici, alla comunità che assiste attonita alla sua eliminazione. Se è un missionario pare che la missione stessa si blocchi.
Il martire tuttavia non resiste solo nella memoria commossa di chi lo ha conosciuto o nel ricordo dei suoi gesti e insegnamenti: il martire resiste in Cristo. In tal modo diventa segno e fonte di speranza: non ci istruisce tanto la sua morte, ma la vita che prima ha vissuto in nome e per conto del Vangelo e ora la vita che sperimenta nel suo compimento, cioè nella relazione salda e definitiva con Gesù, il Crocifisso Risorto.
Questo sguardo – che i teologi qualificano come “escatologico” – non isola il martire, ma lo restituisce ai suoi amici, a chi lo ha conosciuto, a chi ne sente parlare. Non solo il suo passato, ma anche il suo presente è giudizio sul nostro cammino di Chiesa e di missione, è sostegno nelle difficoltà, è regola di vita su ciò che i cristiani devono fare o evitare. Nello scandalo dell’apparente assenza, il martire diventa fondatore di nuove speranze, sorgente di fiducia, messaggio che supera il tempo e lo spazio, Parola preziosa per rinnovare la Missione".

(don Gianni Cesena, Direttore Nazionale della Fondazione Missio)

Restare nella speranza eventi e riflessioni - Liberi nel cuore della storia

 “Il ripetersi fin troppo frequente di episodi di martirio tra i missionari e tra i cristiani rinnovano dolore, smarrimento, talvolta anche paura e rabbia”, osserva don Gianni Cesena, direttore generale di Missio: “Però sul seme di Romero, come su quello dei martiri cristiani antichi o contemporanei, ogni comunità cristiana ha ritrovato il senso profondo della vita secondo il Vangelo e spesso il coraggio di una memoria attiva, non rassegnata, capace di continuare il cammino con uno slancio migliore” (agenzia SIR).

«Non potremmo intendere il martirio come l'estrema, radicale accettazione dell'altro quale espressione dell'ancora più radicale accettazione di Dio? Gesù, infatti, non salva l'uomo perché muore "per lui", ma perché, morendo, ribadisce che Dio è padre e che, quindi, l'uomo continua a essergli figlio. Non è la morte che fa vivi bensì l'amore, e l'amore è prima di tutto "spazio che si libera per l'altro" nell'offerta di una relazione senza la quale l'altro non sarebbe. E il martire, dunque, muore perché l'altro sia» (PIME, centro di cultura e attività missionaria, Milano; il numero di marzo 2010 di Mondo e Missione è dedicato interamente agli "eredi" di mons. Romero: i martiri dell'America Latina del nostro tempo).

In passato si ricordavano i “martiri progressisti”; oggi quelli causati dall’islam. E si dimenticano i vescovi cinesi in carcere o i cattolici vietnamiti, vittime di uno Stato che vuole controllare la vita degli individui (come è la tentazione dell’occidente).

Il culto dei martiri deve spingere alla missione e al pellegrinaggio. Gli Stati devono garantire la libertà religiosa, base per la pace.


Consulta l'elenco dei missionari uccisi dal 2000 al 2009
  

La memoria dei martiri è uno degli elementi cardine per approfondire la fede: Giovanni Paolo II ne ha rilanciato il valore quando ha voluto preparare la Chiesa ad entrare nel terzo millennio. Ora, sulla sua scia, molte comunità cristiane, associazioni, semplici fedeli organizzano marce, digiuni, rosari per onorare fratelli e sorelle che nel mondo muoiono a causa della fede. Ma perché il culto dei martiri divenga una base per il rinnovamento della nostra fede, sono necessarie alcune puntualizzazioni.

Occorre anzitutto ricordare tutti i martiri, senza scremare, nascondere o dimenticare quelli che non sono assimilabili alla nostra mentalità. In passato, si preferiva parlare soprattutto di martiri “progressisti”, uccisi da regimi di destra – soprattutto in America Latina – o da regimi succubi del neocolonialismo occidentale (come in Africa).

Lo stesso mons. Romero è stato usato per molto tempo come una bandiera per criticare la supremazia Usa in America Centrale. È stato Giovanni Paolo II a strappare dalle viscide strumentalizzazioni politiche la figura di questo martire, mettendo in luce il suo cuore appassionato a Cristo e la prontezza nel suo donare la vita per il bene del suo popolo. Oggi sembra si preferisca parlare soprattutto dei martiri nel mondo islamico, forse perché si vede in questo un loro possibile uso nella lotta mondiale al terrorismo e per esaltare la necessità di sicurezza nelle proprie frontiere.

C’è anche il pericolo opposto: che per paura di strumentalizzazioni politiche, i cristiani tacciano sui loro eroi della fede. Ricordare i martiri è onorare la loro fede e il dono fatto della vita a causa del Vangelo, per imparare a divenirne imitatori, non un mezzo per fare campagne politiche.

A questo proposito vale la pena ricordare che vi sono martiri cinesi, fra i più dimenticati dalla Chiesa e dalla società. Pochi cristiani – nemmeno vescovi – si ricordano che nelle prigioni cinesi ci sono tre prelati della Chiesa cattolica scomparsi da anni (qualcuno da decenni) nelle mani della polizia. Poche volte ho visto pregare per loro, implorare la loro liberazione alle autorità di Pechino.

Un simile destino capita ai cristiani vietnamiti (e all’arcivescovo di Hanoi, mons. Kiet), da anni sotto le percosse, i soprusi, il bombardamento mediatico del governo. Eppure la loro testimonianza è fra le più feconde in Asia, e la loro persecuzione è molto vicina a quella che potrebbe capitare a noi, da parte di un governo statolatrico che pretende occupare tutti gli spazi sociali e morali della vita della gente: un po’ come fanno i governi occidentali con l’aborto, la pillola, il preservativo e altri fantomatici “diritti”.

Il ricordo dei martiri deve spingere anche al pellegrinaggio. Anzitutto alle loro tombe, ma poi alle case e alle chiese delle comunità del Salvador, del Messico, del Medio Oriente, della Cina. Questi viaggi devono servire a condividere la sofferenza, ma soprattutto la fede di questi nostri fratelli, “portando le loro catene” (Ebrei 13, 3), perché nasca una maggiore decisione missionaria in ognuno, in particolare nei giovani.

Il culto dei martiri ha un valore anche per la società civile: in un mondo relativista, che rischia il suicidio per mancanza di verità, la loro preziosa testimonianza afferma che vi sono valori per cui vivere e morire, che vi è una Vita più potente della morte. Non per nulla i vescovi del Giappone hanno voluto mettere sotto la protezione dei martiri giapponesi la vita di tanti loro giovani tentati dal suicidio.

Per gli Stati e i governi, il culto dei martiri deve muovere a garantire ovunque la libertà religiosa. Il loro sacrificio è il segno di disordine e violenza nella società, due elementi che non aiutano né la crescita, né la pace. La loro morte per amore a Cristo è un pegno di riconciliazione ( Testo di Bernardo Cervellera - © Asia News - 24 marzo 2010 rassegna-stampa-cattolica/dal-mondo/ricordare-tutti-i-martiri.html)