9 settembre 2018 - XXIII Domenica del T.O.: Dio guarisce per renderci liberi
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In questo racconto Gesù appare innanzitutto come il "passatore" di frontiere: cammina con i suoi attraversando la Galilea, passando alle città fenice di Tiro e Sidone, fino alla Decapoli pagana. Il cammino di Gesù, l'uomo senza confini, è come una sutura che cuce insieme i lembi di una ferita, alla ricerca di quella dimensione dell'umano che ci accomuna tutti e che viene prima di ogni divisione culturale, religiosa, razziale.
Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, una vita dimezzata, ma che viene ?portato?, da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene, fino a quel maestro straniero, ma per il quale ogni terra straniera è patria.
E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più. Appartiene proprio alla pedagogia dell'attenzione la successione delle parole e dei gesti. Lo prende, per mano probabilmente, e lo porta via con sé, in disparte, lontano dalla folla, e così gli esprime un'attenzione speciale; non è più uno dei tanti emarginati anonimi, ora è il preferito, e il maestro è tutto per lui, e iniziano a comunicare così, con l'attenzione, occhi negli occhi, senza parole. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati.
Gesù pose le dita negli orecchi del sordo: il tocco delle dita, le mani che parlano senza parole. Gesù entra in un rapporto corporeo, non etereo o distaccato, ma come un medico capace e umano, si rivolge alle parti deboli, tocca quelle sofferenti.
Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa di vitale, che sta nella bocca dell'uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore e «i sensi sono divine tastiere» (D.M. Turoldo). La salvezza passa attraverso i corpi, non è ad essi estranea, né li rifugge come luogo del male, anzi sono «scorciatoie divine» (J.P. Sonnet),
Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore; emettendo un sospiro che non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo di dolore, ma è il respiro della speranza calmo e umile, è il sospiro del prigioniero (Salmo 102,21), è la nostalgia per la libertà (Salmo 55,18). Prigioniero insieme con quell'uomo impedito, Gesù sospira: Apriti, come si apre una porta all'ospite, una finestra al sole, come si apre il cielo dopo la tempesta.
Apriti agli altri e a Dio, e che le tue ferite di prima diventino feritoie, attraverso le quali entra ed esce la vita. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno.
Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l'uomo vivente» (Sant'Ireneo) l'uomo tornato a pienezza di vita.
Omelia di padre Ermes Ronchi
La vera guarigione è ascoltare le grandi opere di Dio
Non so cosa si provi ad essere sordi; immagino che il contatto col mondo esterno sia più faticoso e i propri pensieri e sentimenti amplificati. Penso che ci si debba fidare molto di sé e della percezione del reale che si è acquisita attraverso l’esperienza, con il rischio da una parte di un certo soggettivismo ma con l’opportunità dall’altra di una maggiore attenzione a ciò che accade intorno. Ogni condizione di vita che noi comunemente giudichiamo svantaggiata reca in sé una mancanza ma anche un’occasione di crescita e integrazione di aspetti e facoltà personali prima sopiti o insospettati.
È facile comprendere allora come una persona sorda possa sviluppare meglio la profondità dello sguardo e, se è anche muta, l’espressività del volto. Queste considerazioni già suggeriscono come nell’uomo vi sia la capacità di andare oltre i propri limiti, tuttavia il vangelo dice molto di più. Qui l’handicap non è solo fisico ma anche spirituale. Siamo in terra pagana, per sua natura inospitale alla fede, e vi è una persona sordomuta, ossia incapace di ascoltare la Parola. È dunque un uomo perlopiù escluso sia dal contesto sociale sia da quello religioso, impossibilitato ad udire le grandi opere che Dio ha compiuto nel corso della storia. Non è il malato a chiedere la guarigione, anche perché non è nella possibilità di comunicare efficacemente, ma qualcuno lo fa per lui, domandando a Gesù il gesto dell’imposizione delle mani. È chiaro come il maestro sia considerato un taumaturgo e gli venga chiesto un intervento terapeutico simile a quello dei tanti guaritori che circolavano in quel periodo. Gesù però non si limita ad accogliere quanto perorato da gente mossa da un sincero senso di compassione; va oltre e, conducendo il sordomuto in disparte, ripristina quel silenzio originale in cui il Padre compì l’atto creativo. «Gli pose le dita negli orecchi», come un artigiano che dà il tocco finale al suo manufatto, poiché Dio non solo crea, ma cura anche i dettagli di ogni sua creatura: un invito per noi a prestare maggiore attenzione alle sfumature del nostro dire e fare, mettendo al bando ogni grossolanità che deturpa la bellezza anche delle cose sacre. «Con la saliva gli toccò la lingua», evocando il respiro di Dio, cioè lo Spirito che si condensa per poter bagnare quel palato arido e incapace di produrre parole dolci come frutti di stagione. Cristo, «guardando quindi verso il cielo», con tale riferimento al Padre introduce un criterio decisivo in ogni esperienza che vogliamo sia per noi vivificante: il principio dell’alterità, anima di ogni guarigione. La relazione col Padre e quella squisitamente umana coi fratelli, che si compie non in teoria ma con la mediazione dei corpi, è il cuore di ogni risanamento. Apertura a Dio, agli altri, alla propria storia e alla promessa di vita che ci sta davanti, sembra gridare Gesù. La chiusura è morte, mentre il contatto con l’altro da me, fino a lasciarmi impegnare, scomodare e addirittura contaminare dal prossimo, è l’unico modo per capire e maturare la mia identità.
Occorrono poi altri due passaggi perché l’opera di liberazione si compia. Bisogna camminare in questa via nuova, esercitare quelle facoltà che Cristo mi ha restituito, perché se ad esempio, dopo aver ricevuto il perdono dei peccati non mi cimento nella carità fraterna, il dono di grazia può rimanere infruttuoso. È necessario ascoltare e lodare il Signore per tutto il bene che Egli ha operato in noi, altrimenti resteremo degli ingrati, incapaci di far circolare l’amore ricevuto. Ancora, la storia del sordomuto guarito ci insegna che il dono personale deve diventare patrimonio di tutta la Chiesa, come accade alla fine del nostro testo, in cui il miracolo costituisce lo spunto per proclamare con stupore il vangelo. Dio «ha fatto bene ogni cosa», cura i particolari, apre l’uomo alla relazione autentica con sé e con gli altri. Domandiamoci quali siano le nostre chiusure, tra le quali in questo nostro tempo spicca quella verso Dio stesso. Molto spesso ci troviamo davanti a persone totalmente indifferenti a tutto ciò che anche lontanamente allude alla presenza di Dio; è come se udissero una lingua che non conoscono. In effetti, quando nel mondo senti parlare infinite altre lingue, finisci per imparare quella più facile, tralasciando quella essenziale o, peggio, quando un bambino cresce senza aver sentito mai parlare di Dio, come può essere in grado di comprendere quelle parole che lo aprono a tale relazione? Facciamo carico dell’urgenza dell’annuncio e anche noi ‘faremo bene’ la nostra parte.
Omelia di don Tonino Sgrò tratta da www.regggiobova.it
Liturgia e Liturgia della Parola della XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) 9 settembre 2018
tratto da www.lachiesa.it