22 aprile 2018 - IV Domenica di Pasqua: Appartenere, conoscere, amare

News del 22/04/2018 Torna all'elenco delle news

L'espressione - costantemente ritornate in Giovanni - ?Io sono? richiama il ?Nome? che Dio ha rivelato a Mosè dal roveto (Es 3,14), è l'atto supremo della rivelazione del proprio intimo. La preoccupazione dell'evangelista è prima di tutto rivelare la condizione divina di Gesù, la sua identità con il Padre, poi la sua realtà messianica disvelata nel termine ?pastore?. Il profeta Ezechiele aveva annunciato un nuovo David, unico pastore (Ez 34,23; 37,24), nella prospettiva di riportare l'Israele nell'unità raggruppando i dispersi in un unico popolo (Ez 37,22).

L'idea di ?pastore? tramandata dalla scrittura, prima di una prospettiva religiosa, ha soprattutto rilevanza politica. In antico, e ancora oggi nei paesi del medio oriente e in molte altre culture, non c'è distinzione tra politica e religione; è col sopraggiungere del pensiero illuminista e liberale che si teorizza in occidente la separazione dei due aspetti che comunque fanno parte dell'unica realtà umana.

L'affermazione Io sono il buon pastore identifica Gesù nella sua dimensione di Re Pastore (cfr Mt 25,31ss) il cui giudizio trae origine dalla sua relazione: Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Questo è il Re [e con approssimazione il politico di turno]: colui che dà la propria vita. 

Gesù sa bene che la realtà degli uomini non è questa perché i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono (Mt 20,25); il paragone che la parabola di Giovanni ci offre è quella col mercenario che tutto fa per denaro e non gli importa delle pecore.

Ci sarebbe molto da riflettere sul senso che noi diamo alla politica, alla democrazia, al vivere comune.

Al quale le pecore non appartengono  La prima riflessione potrebbe essere generata proprio dal senso della appartenenza. Viviamo in un'epoca in cui è assolutamente difficile (e se vogliamo essere pessimisti è impossibile) identificare il senso di appartenenza, rispondere alla semplice domanda a chi appartengo, di chi sono? Tutto fa immaginare e credere che il pensiero dominante sia il contrario e si incentra più su ciò che è mio, che mi appartiene e la tendenza è ampliare il raggio di appartenenza o ciò che è ritenuto tale. Non riguarda solo le cose materiali la cui proprietà è certificabile; pensiamo alle realtà territoriali, culturali, personali; è mia la città, la nazione, è mia la famiglia, i figli, la moglie (pensiamo al dilagare dei femminicidi), perfino la squadra del cuore. E se per caso ci balenasse l'idea di appartenere noi ad una città, o ad una Chiesa, ad una famiglia, di fatto ci lasciamo sopraffare da una prassi contraria. Anche Gesù in qualche modo mi appartiene ed è più facile che a lui chieda qualcosa piuttosto che donarli qualcosa della mia vita.

Questa visuale ristretta e privatistica del mondo e delle relazioni ci impedisce di guardare serenamente oltre il proprio limite verso altre pecore che non provengono da questo recinto nella prospettiva di diventare con loro un solo gregge.

Le mie pecore conoscono me  Una seconda riflessione potrebbe essere dettata dal verbo conoscere. Non si tratta di allargare o approfondire il ?sapere? delle cose e delle persone lasciata ciascuna nel suo mondo, nella sua realtà o nel suo habitat; non dobbiamo girare un nuovo documentario da una telecamera nascosta. Il termine conoscere indica la profondità della relazione intima sponsale (nella Scrittura è il verbo usato per indicare l'attività sessuale; molto lontano è il biblico conoscere dal nostro possedere) che tende a fare di due una cosa sola.

Ogni ?conoscenza? non è specchio della relazione con il Signore Gesù e assimilabile a quella con Padre, non sono relazioni diverse paragonabili tra loro ma è la stessa relazione che coinvolge il Padre e il Figlio e coinvolge anche l'umanità. La Buona Novella sta proprio nella profondità della relazione, i Vangeli e le Scritture parlando di relazione sono universali e non esclusivi.

L'appartenere ad una realtà non si può esprimere nel solo senso di possedimento, abbiamo bisogno di conoscere, di entrare in relazione, di fondare una relazione che unisce e costruisce un'unica realtà: così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri (Rm 12,5).

E do la mia vita  Se il senso di appartenenza e la conoscenza si richiamano a vicenda, ambedue per essere compresi hanno bisogno di un ulteriore approfondimento che ci è offerto dall'immagine del pastore buono che dà la propria vita. È la dimensione dell'amore totale che giunge al sacrificio di se stessi, senza limiti e senza compromessi.

L'assurdo utopistico della democrazia (demos - kratos, popolo-potere) è quello che il popolo scelga chi si deve sacrificare per la nazione, sono rarissimi i casi di governanti che hanno speso tutte e loro risorse per gli altri, l'amore e il dono di sé non appartengono al mondo della politica. Non è raro invece che uomini e donne, cittadini comuni abbiano generosamente impegnato la propria vita per gli altri; santi più o meno palesi, uomini di fede o no, non solo cristiani che hanno dato senso al loro essere con generosità e amore.

Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali (Gaudete et exultate n. 14)

Omelia di don Luciano Cantini

 

I lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.

Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.

La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d'amore.

Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.

Siamo davanti al filo d'oro che lega insieme tutta intera l'opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.

Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l'attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa al tralci, della sorgente che dà acqua viva.

Pietro definiva Gesù «l'autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l'universo.

Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.

Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.

Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.

Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.

 

Il buon pastore c'è stato dall'inizio e ci sarà sempre

Abbiamo bisogno di sapere chi è Gesù per decidere se possiamo fidarci completamente di Lui o facciamo meglio a seguire le nostre intuizioni o gli insegnamenti che vengono dall’esperienza. E Cristo, assecondando la nostra necessità di capire di più, offre in questo vangelo una delle più chiare definizioni della propria identità: è il buon pastore.

L’immagine era molto nota agli Ebrei, soprattutto per le accuse che i profeti rivolgevano alle guide del popolo che, invece di spendersi per il bene dei fratelli, li sfruttavano preferendo pascolare se stessi. Gesù si distingue da tali mercenari perché «dà la propria vita per le pecore». Cosa lo rende capace di tale fedeltà al gregge fino al dono della vita? Spesso crediamo che la risposta sia scontata: Gesù è Dio; Dio è amore e l’amore dà la vita. Se nell’ordine logico questi passaggi sono incontrovertibili, l’amore per le pecore, nella coscienza umana di Gesù, si è nutrito della conoscenza concreta di ciascuna di esse.

 

Scoprire che siamo conosciuti e amati da Dio nei nostri desideri più alti e nei pensieri inconfessabili, nelle opere ben riuscite e nei fallimenti brucianti, ci fa sentire addosso la sua protezione e ci apre all’aspirazione di conoscerlo a nostra volta.

Io voglio sapere tutto di chi per me affronta il nemico! Il lupo sono tutte le realtà che possono allontanare l’uomo dalla fede, ‘rapendo’ in tal modo la sua parte migliore, che è quella consegnata a Dio, l’unica che avrà la certezza di dare frutti di vita. L’azione del lupo inoltre ‘disperde’ l’uomo dal centro vitale che è la comunità di fede, rendendolo isolato e prigioniero di se stesso. Dinanzi all’azione del nemico, il mercenario non è in grado di difenderti, perché ha il cuore rivolto a sé e alla propria sopravvivenza, non a te e alla tua incolumità. Non c’è dolore più grande di questo: sentire di non essere amato per quello che sei, scoprire che l’altro ti è stato accanto solo per convenienza e che, in realtà, non gli importa nulla di te. È qualcosa che ti annienta, ti fa sentire insignificante.

È qualcosa che ti segna al punto che ogni altra relazione sarà inficiata da una certa insicurezza, dal dubbio che chi ti si avvicina c’è fino ad un certo punto e che si interessa solo di una parte di te, quella che gli fa più comodo. E, forse, chissà quante volte anche noi ci siamo comportati così senza neanche rendercene conto. Perché - diciamoci la verità - in fondo siamo tutti un po’ egoisti, vogliamo stare bene, essere felici e spesso l’altro diventa solo qualcuno che può tornarci utile. Raramente, invece, guardiamo a chi ci sta vicino come qualcuno da amare e basta, senza calcoli, senza condizionamenti, senza pensare a ciò che piace a noi. Raramente nei nostri rapporti siamo pastori. 

Il Vangelo però scardina questa logica. Quale meraviglia, quale gioia si sprigiona nel cuore quando sai che c’è qualcuno per cui tu sei prezioso e che non ti abbandona mai! Questo cambia tutto. Essere amato così è come se mi abilitasse ad amare gli altri allo stesso modo. E anche gli altri, se sperimenteranno questa dedizione, sapranno imitarla. L’origine di tale ininterrotta catena d’amore sta nella conoscenza e nell’amore reciproci tra il Padre e il Figlio. Gesù trasferisce la potenza d’amore di quella relazione al rapporto con ciascuno di noi e il Padre, che gli ha dato il comando di offrire la vita, si compiace della dedizione del Figlio e ci ama per mezzo di Lui. Una dedizione che si estende oltre il recinto di Israele, perché Gesù avverte l’urgenza di guidare ogni creatura. Cosa è richiesto alle pecore? Ascoltare la voce del pastore. Tra tante voci che si sovrappongono, esse sanno riconoscere l’unica a loro familiare, che ha un tono e un suono particolare e che hanno imparato a distinguere perché è quella che c’è sempre stata fin da quando sono venute al mondo. Questo pastore c’è sempre stato! Ecco perché è degno di essere seguito e il frutto di tale sequela sarà l’unità, «un solo gregge, un solo pastore». Cristo mi restituisce ai miei fratelli. Il lupo ci ha dispersi, perché il peccato ci allontana gli uni dagli altri, facendoci diventare sospettosi e aggressivi col prossimo. Così come Gesù riceve nuovamente la vita dopo averla donata, seguendo il buon pastore noi riceviamo dei fratelli dopo che il peccato ci ha impedito di guardarci nella bellezza di cui ciascuno è portatore. «Io sono», ha proferito Gesù. Anche noi abbiamo necessità di essere, ma l’unico modo per dare consistenza alla vita è lasciarsi guidare dal pastore, far sì che il nostro “io” diventi unito al suo.  

Omelia di don Tonino Sgrò tratta da www.reggiobova.it