11 marzo 2018 - IV Domenica di Quaresima "Laetare": l'amore non condanna, l'amore salva
News del 10/03/2018 Torna all'elenco delle news
Il nostro sguardo è rivolto a Gesù sulla croce nel momento supremo del suo amore per tutta l'umanità e guardando Cristo e credendo in lui che noi siamo salvi, che noi abbiamo la vita eterna: chiunque crede in lui ha la vita eterna. Il Vangelo tratto dal dialogo tra Gesù e Nicodemo ci rivela qualche cosa di grandioso. Gesù dice Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede non vada perduto ma abbia la vita eterna. Dio ha tanto amato il mondo: l'ho amato "tanto", in una maniera così grande che non ce n'è una maggiore. Ecco l'infinito, l'immenso amore di Dio per il mondo, per l'umanità, per ciascuno di noi. Continua Gesù: Dio non ha mandato il Figlio del mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Dio non condanna, Dio ama, Dio soffre, Dio salva. C'è qui qualcosa di importante da imparare: a noi viene normale condannare il mondo, scomunicare, puntare il dito sulle cose negative, sui drammi, sui peccati. Chissà perché si pensa sempre che siano gli altri a fare i peccati. Dio ama il mondo così come è, proprio perché è nel peccato e viene allora per salvarlo. Noi come ci sentiamo davanti al mondo? Io lo amo il mondo? soffro per i mali e malattie che ha, per i peccati contro Dio e contro l'uomo che ci sono? Prego per il mondo, do me stesso per un mondo diverso, che si costruisca nella fede, nella speranza, nella carità?
Omelia di don Roberto Rossi
Noi siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama
Dio ha tanto amato il mondo, versetto centrale del Vangelo di Giovanni, versetto dello stupore che rinasce ogni volta, per queste parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d'onde e aria buona respirata a pieni polmoni; parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci forte in tutti i passaggi della vita, in ogni caduta, in ogni notte, in ogni delusone.
Dio ha così tanto amato... e la notte di Nicodemo, e le nostre notti si illuminano. Qui possiamo rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo giardino che Dio mi ha affidato.
Non solo l'uomo, ma è il mondo che è amato, la terra è amata, e gli animali e le piante e la creazione intera. E se egli ha amato la terra, anch'io la devo amare, con i suoi spazi, i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori.. E se Egli ha amato il mondo e la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo: «mio prossimo è tutto ciò che vive» (Gandhi).
La rivelazione di Gesù è questa: Dio ha considerato il mondo, ogni uomo, questo mio niente cui però ha donato un cuore, più importante di se stesso. Per acquistare me ha perduto se stesso. Follia d'amore.
Dio ha amato: la bellezza di questo verbo al passato, per indicare non una speranza o una attesa, ma una sicurezza, un fatto certo, e il mondo intero ne è intriso: «il nostro guaio è che siamo immersi in un oceano d'amore, e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Tutta la storia biblica inizia con un ?sei amato? e termina con un ?amerai? (P. Beauchamp). Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama.
Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato, perché chi crede abbia la vita. A Dio non interessa istruire processi contro di noi, non dico per condannare o per pareggiare i conti, ma neppure per assolverci. La vita degli amati da Dio non è a misura di tribunale, ma a misura di fioritura e di abbraccio, nel paradigma della pienezza.
Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d'erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: Se potrò impedire a un Cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano. Se potrò alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un Pettirosso caduto a rientrare nel suo nido non avrò vissuto invano. (Emily Dickinson).
Omelia di padre Ermes Ronchi
Risparmiare sull'amore o salire sulla croce?
Amo Dio abbastanza? Riesce il suo amore ad entrare nel mio intimo fino a colmare il vuoto, lenire il dolore, alimentare la gioia? Perché a volte sembra che il suo amore non mi scalfisca e che mi senta quasi obbligato ad amarlo per il fatto che lui è Dio, il mio creatore e salvatore? Se guardo solo me stesso rischio di non trovare mai una soluzione a interrogativi così decisivi, perché il mio cuore è un abisso di domande e risposte spesso inconcludenti e di spinte contrastanti tra loro.
Ho bisogno di guardare fuori di me. Lo faccio e subito si dispiega dinanzi agli occhi quella che mi hanno sempre spiegato essere la ‘forma e misura’ del suo amore, la croce. Giovanni ce la presenta sospesa tra terra e cielo, in quella zona in cui la vita del Figlio si rivela come vita che incarna il fallimento umano eppure allo stesso tempo manifesta l’eccedenza dell’amore divino. Per l’evangelista, Gesù innalzato è in quel preciso istante il Cristo glorificato dal Padre perché col dono della sua vita è stato capace di trasformare una storia di morte in una storia d’amore. Per spiegare il dono di vita che ci viene dal sacrifico del Figlio, è evocato l’episodio dei serpenti che col loro veleno uccidevano gli ebrei nel deserto. Quando Mosè innalzava il bastone di bronzo, chi volgeva lo sguardo verso il serpente ivi raffigurato, era salvato da quei morsi mortali. Dietro questa immagine vi era l’idea arcaica che il serpente fosse pericoloso finché strisciava sulla terra, in quanto ne assorbiva tutta l’impurità, mentre perdeva tale potere di morte quando veniva meno il suo contatto col suolo. Gesù è colui che assorbe su di sé tutto l’odio del mondo e lo trasforma in amore; a lui bisogna guardare, così come «bisogna» che Egli sia innalzato. La croce infatti risponde alla necessità del Padre che vuole che gli uomini siano salvati per mezzo di essa; allo stesso tempo interpella sul versante umano la necessità della fede nel Figlio innalzato affinché l’uomo acceda alla salvezza. «Chiunque crede» riceverà il dono d’amore. Questa universalità del dono è commovente perché ti dice che ogni persona può rivolgersi a Gesù e trovare amore, sia che tale amore l’abbia scelto fin dall’inizio, sia che ci sia arrivata quasi per ripiego, dopo aver cercato invano altrove, poiché l’amore di Dio non rinfaccia nulla e si dona genuinamente a chi si volge ad esso anche al termine di tutti gli altri tentativi falliti. È necessaria però la fede, proprio perché Dio non costringe nessuno a guardare il suo amore, e ciascuno deve sentirsi libero di cercare altri amori. La differenza è che solo l’amore di Dio ti dona la vita eterna, la vita che non muore. Non si tratta unicamente della vita ultraterrena, ma una vita nell’Eterno, che ti rende capace di essere un tutt’uno con l’origine di tutte le forme e misure d’amore. La scelta sta tra l’accontentarsi di un amore che, se perde progressivamente contatto con la sorgente rischia di farti scivolare nelle tenebre, come accade qui a Nicodemo non ancora maturo nella fede, oppure tra il sentirsi collocati con Gesù sulla croce, là dove scaturisce l’amore incondizionato. Chi con coraggio decide di stare dove l’amore prende vita dalla morte, non solo non subirà alcuna condanna da Dio, ma avrà la gioia di vivere per sempre nella luce e di irradiare luce. Giovanni sta adottando lo stesso simbolismo del prologo per sottolineare la ricchezza del dono di Dio, ma mette in guardia dalla tenebra che può scendere sulla vita dell’uomo: la scelta deliberata e misteriosa dell’incredulità. Chi, nonostante abbia conosciuto l’opera di Cristo, sceglie di perseverare nelle «opere malvagie», dimostra in tal modo di non credere, che «odia la luce, e non viene alla luce». Infatti «il male vuole restare nascosto per non essere denunciato, come la menzogna per non essere sbugiardata» (Silvano Fausti); eppure quanta più gioia dà una vita in cui non devi essere guardingo, sospettoso di nessuno, ma semplicemente te stesso col patrimonio d’amore che hai accumulato. Una vita luminosa permette al credente che «appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio», sicché l’opera di Dio e quella dell’uomo si fondono in perfetta comunione di intenti e attuazioni. La verità della croce è luce e il nostro credere in Gesù è un incamminarsi verso questa luce, come ha fatto Gabriele Allegrino, il seminarista scomparso domenica, quando la luce del Figlio glorificato ha avvolto totalmente il suo corpo piagato dalla malattia e il suo animo desideroso di unirsi a quell’origine d’amore che la Chiesa acclama come il Vivente.
Omelia di don Antonino Sgrò
Liturgia e Liturgia della Parola della IV Domenica di Quaresima (Anno B) 11 marzo 2018 tratto da www.lachiesa.it