24 settembre 2017 - XXV Domenica del Tempo Ordinario: L'economia del Signore: amare in «perdita»
News del 23/09/2017 Torna all'elenco delle news
Il Vangelo è pieno di vigne e di viti, come il Cantico dei cantici. La vigna è, tra tutti, il campo più amato, in cui il contadino investe più lavoro e più passione, gioia e fatica, sudore e poesia. Vigna di Dio e suoi operai siamo noi, profezia di grappoli colmi di sole.
Un padrone esce all'alba in cerca di lavoratori, e lo farà per ben cinque volte, fino quasi al tramonto, pressato da un motivo che non è il lavoro, tantomeno la sua incapacità di calcolare le braccia necessarie. C'è dell'altro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza fare niente? Il padrone si interessa e si prende cura di quegli uomini, più ancora che della sua vigna. Qui seduti, senza far niente: il lavoro è la dignità dell'uomo. Un Signore che si leva contro la cultura dello scarto!
E poi, il cuore della parabola: il momento della paga. Primo gesto contromano: cominciare dagli ultimi, che hanno lavorato un'ora soltanto. Secondo gesto contro logica: pagare un'ora soltanto di lavoro quanto una giornata di dodici ore.
Mi commuove il Dio presentato da Gesù: un Dio che con quel denaro, che giunge insperato e benedetto a quattro quinti dei lavoratori, vuole dare ad ognuno quello che è necessario a mantenere la famiglia quel giorno, il pane quotidiano.
Il nostro Dio è differente, non è un padrone che fa di conto e dà a ciascuno il suo, ma un signore che dà a ciascuno il meglio, che estende a tutti il miglior dei contratti. Un Dio la cui prima legge è che l'uomo viva. Non è ingiusto verso i primi, è generoso verso gli ultimi. Dio non paga, dona.
È il Dio della bontà senza perché, che trasgredisce tutte le regole dell'economia, che sa ancora saziarci di sorprese, che ama in perdita. Anzi la nostra più bella speranza è un Dio che non sa far di conto: per lui i due spiccioli della vedova valgono più delle ricche offerte dei ricchi; per quelli come lui c'è più gioia nel dare che nel ricevere.
E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita: mette l'uomo prima del mercato, il mio bisogno prima dei miei meriti.
Quale vantaggio c'è, allora, a essere operai della prima ora? Solo un supplemento di fatica? Il vantaggio è quello di aver dato di più alla vita, di aver fatto fruttificare di più la terra, di aver reso più bella la vigna del mondo.
Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace che Tu sia buono, perché sono io l'ultimo bracciante. Non mi dispiace, perché so che verrai a cercarmi ancora, anche quando si sarà fatto molto tardi.
Io non ho bisogno di una paga, ma di grandi vigne da coltivare, grandi campi da seminare, e della promessa che una goccia di luce è nascosta anche nel cuore vivo del mio ultimo minuto.
Omelia di padre Ermes Ronchi
La giustizia non è la regola suprema
Il vangelo di oggi (Matteo 20,1-16) presenta una parabola sul tema della giustizia di Dio, sottintendendo che dovrebbe essere il modello anche per gli uomini. Ne è illuminante premessa la prima lettura (Isaia 55,6-9), in cui parlando a nome del Signore il profeta dichiara: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie".?
Tante volte la Bibbia presenta uomini che non capiscono l'agire di Dio, e in base a calcoli umani lo contestano. Lo fa Giona, il quale non vorrebbe che Dio perdonasse agli abitanti di Ninive; lo fa il fratello maggiore del figlio prodigo, il quale trova ingiusto che il padre riaccolga e festeggi lo scapestrato pentito; lo fa Pietro -- l'abbiamo sentito qualche domenica fa -- alla prospettiva del suo Maestro messo a morte. Lo fanno, per continuare con gli esempi, alcuni personaggi del vangelo odierno.
? E' la parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna. Con i primi, ingaggiati all'alba, il padrone concorda la paga di un denaro per il lavoro della giornata; ne chiama poi altri nelle ore successive, sino alle cinque del pomeriggio, impegnandosi a dare loro il giusto compenso. Alle sei, finita la giornata, dà ordine al fattore di dare a tutti la paga, cominciando dagli ultimi. Tutti ricevono un denaro, e i primi si lamentano: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo!" Il padrone allora spiega a uno di loro: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Se voglio dare altrettanto agli altri, non posso disporre del mio come voglio? Sei forse invidioso perché io sono buono???
Nel padrone della parabola è facile riconoscere Dio, e negli operai gli uomini, chiamati a "lavorare" per lui, a vivere in sintonia con lui. I primi chiamati furono gli appartenenti al popolo eletto, i discendenti di Abramo, i quali al tempo di Gesù si meravigliavano delle sue aperture agli "indegni" (i pubblici peccatori e gli appartenenti ad altri popoli) cui offriva le stesse prospettive. Anche oggi qualcuno considera ingiusto che una persona vissuta a combinarne d'ogni colore, se magari all'ultimo momento si pente, possa andare in paradiso al pari di chi per tutta la vita si è mantenuto fedele. A quanti, allora come oggi, trovano ingiusto il suo comportamento, con la parabola Gesù vuole far comprendere che quella della giustizia non è la regola più alta della vita. Il padrone della vigna non viola la giustizia: dà ai primi quanto pattuito; ma la supera, con la generosità.?
Gli operai ingaggiati all'alba non considerano che essere chiamati a lavorare e ricevere una paga, da disoccupati quali erano, è già una fortuna: un dono di Dio, una grazia. Nulla ci è dovuto, nessun diritto gli uomini possono accampare davanti a Dio. Tutto è grazia; tutto quanto abbiamo di bello e buono l'abbiamo ricevuto in dono; di tutto dobbiamo essere riconoscenti, e il modo sta nel cercare di fare nostro lo "stile" di Dio. Nella vita pubblica, come nei rapporti privati, troppe volte anche i cristiani si limitano a praticare e pretendere ciò che è, o ritengono sia, giusto. Dimenticano che la giustizia, per un cristiano, non è abbastanza; l'insegnamento e l'esempio del Maestro invitano non a negarla ma a non chiudersi in essa, ad andare oltre, con l'amore.?
Come sarebbe diverso il mondo, se ce ne ricordessimo più spesso! Quante liti, quanti rancori sparirebbero, se invece di atteggiarci a ragionieri che conteggiano minuziosamente ragioni e torti (altrui), ci lasciassimo guidare dalla generosità! Non dimentichiamo quante volte Dio ha passato un colpo di spugna sulle nostre offese a lui. Non dimentichiamo di dare attuazione a parole pronunciate spesso con troppa leggerezza: Rimetti a noi i nostri debiti, "come noi li rimettiamo" ai nostri debitori.
Omelia di mons. Roberto Brunelli
Non operai ma figli nella vigna del Signore
La parabola di oggi, da una parte, ci rivela ancora una volta chi è Dio: è misericordia, è Amore che va in cerca di ognuno di noi per offrirci, in qualunque stagione della vita, la possibilità di vivere della Sua amicizia. D’altra parte, ci rivela anche chi possiamo essere noi! Questo dipende da come viviamo il nostro fare parte della Chiesa. Siamo forse gli operai della “prima ora”? Ossia quelli che andiamo sempre in Chiesa e preghiamo ogni giorno… e poi magari ci scandalizziamo della misericordia di Dio, del fatto che sia disposto a perdonare anche i peccatori più incalliti? Siamo “obbedienti e bravi” come il fratello maggiore della parabola del figliol prodigo e poi critichiamo il Padre per la Sua bontà infinita? Ecco: questo è il punto! Gesù ci vuol fare capire che non siamo “operai”, ma “figli”. L’operaio fa il suo lavoro, viene pagato e se ne va. Il figlio invece è “proprietario” col Padre. L’operaio dopo aver fatto le sue ore di lavoro se ne va a casa. Il figlio del proprietario, invece, sente la vigna come sua e se deve fare sacrifici e lavorare oltre il tempo stabilito, lo fa volentieri perché sa che se il “fatturato” cresce ne avrà benefici anche lui! E allora veniamo a noi: siamo “operai” nella vigna del Signore o ci sentiamo finalmente figli di Dio? E se davvero ci sentiamo figli allora vivremo nel nostro cuore la misericordia di Dio e lavoreremo per la salvezza nostra e dei nostri fratelli/sorelle in umanità senza più fare calcoli, senza più antipatici confronti, felici di potere essere generosi collaboratori dell’Amore di Dio:
“Come posso, Signore,
essere giudice della Tua misericordia,
come potrò mai guardare il Tuo volto,
scorgere il Tuo sguardo
se resto nella mia presunzione.
Il peccato non è solo la colpa commessa,
non è solo il racconto di infedeltà maturata:
è assenza di misericordia,
anemia di speranza e di salvezza.
Se imparassi da Te, dolce Amico,
la forza del riscatto,
la gioia di preparare il pranzo per la festa
per chi non si aspetta cibo,
se ascoltassi il dolce Tuo Verbo,
che è meglio donare che voler avere,
allora la mia gioia sarebbe inaudita,
la luce risplenderebbe nel mio cuore,
la vita diventerebbe festa
per l'incontro con chi vive lontano
e abbraccio di pace con lo straniero.
Signore, voglio imparare da Te,
da Te apprendere la via dell'amore senza condizioni. Amen”
Buona preghiera e buona Domenica a tutti! La Mamma Celeste ci benedica e sorrida sempre!
Omelia di padre Antonio Maria Carfì
Liturgia e Liturgia della Parola della XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 24 settembre 2017
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