23 luglio 2017 - XVI Domenica del TO: guardiamo al buono che Dio semina in noi

News del 22/07/2017 Torna all'elenco delle news

Questa parabola mi ha cambiato il volto di Dio. La interpretava con parole luminose padre Giovanni Vannucci, uno dei massimi mistici del '900. Diceva: il nostro cuore è un pugno di terra, seminato di buon seme e assediato da erbacce; una zolla di terra dove intrecciano le loro radici, talvolta inestricabili, il bene e il male.

«Vuoi che andiamo a togliere la zizzania?» domandano i servi al padrone. La risposta è perentoria: «No, perché rischiate di strapparmi spighe di buon grano!». Un conflitto di sguardi: quello dei servi si posa sul male, quello del padrone sul bene. Il seminatore infaticabile ripete: guarda al buon grano di domani, non alla zizzania. La gramigna è secondaria, viene dopo, vale di meno.

Tu pensa al buon seme. Davanti a Dio una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo, il bene è più importante del male, la luce conta più del buio.

La morale del Vangelo infatti non è quella della perfezione, l'ideale assoluto e senza macchia, ma quella del cammino, della fecondità, dell'avvio, di grappoli che maturano tenacemente nel sole, di spighe che dolcemente si gonfiano di vita.

La parabola ci invita a liberarci dai falsi esami di coscienza negativi, dallo stilare il solito lungo elenco di ombre e di fragilità, che poi è sempre lo stesso. La nostra coscienza chiara, illuminata e sincera deve scoprire prima di tutto ciò che di vitale, bello, buono, promettente, la mano viva di Dio ha seminato in noi: il nostro giardino, l'Eden affidato alla nostra cura.

Mettiamoci sulla strada con cui Dio agisce: per vincere la notte accende il mattino; per far fiorire la steppa sterile getta infiniti semi di vita; per sollevare la farina pesante e immobile mette un pizzico di lievito. Dio avvia la primavera del cosmo, a noi spetta diventare l'estate profumata di messi. Io non sono i miei difetti o le mie debolezze, ma le mie maturazioni. Non sono creato a immagine del Nemico e della sua notte, ma a immagine del Creatore e del suo giorno.

L'attività religiosa, solare, positiva, vitale che dobbiamo avere verso noi stessi consiste nel

non preoccupiamoci prima di tutto delle erbacce o dei difetti, ma nel venerare tutte le forze di bontà, di generosità, di accoglienza, di bellezza e di tenerezza che Dio ci consegna. Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro potenza e vedremo le tenebre scomparire.

Custodisci e coltiva con ogni cura i talenti, i doni, i semi di vita e la zizzania avrà sempre meno terreno. Preoccupati del buon seme, ama la vita, proteggi ogni germoglio, sii indulgente con tutte le creature. E sii indulgente anche con te stesso. E tutto il tuo essere fiorirà nella luce.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Dio non vuole la morte del peccatore

Tre brevi parabole formano il vangelo di oggi (Matteo 13,24-43). Fermiamoci alla prima, che sembra continuare quella di domenica scorsa sulla semina e sui suoi frutti, e costituirne quasi uno sviluppo. Il seminatore sparge la semente, che in parte si perde e solo in parte attecchisce e porta frutto: così domenica scorsa; oggi si aggiunge che, anche là dove attecchisce, cresce frammista a erbe infestanti come la zizzania. Che fare? Se si strappano le erbacce si rischia di strappare anche il buon grano; conviene, dice Gesù, aspettare sino alla mietitura e solo allora separare questo da quelle, destinandoli alla sorte che meritano: il buon grano al sicuro nel granaio, le erbacce ad alimentare un bel falò. Il significato anche stavolta lo spiega lo stesso Gesù: il campo è il mondo, il buon grano sono gli uomini che corrispondono ai doni di Dio, la zizzania sono i malvagi, e la differenza si vede alla fine.

Questo quadretto di vita contadina, all'apparenza così semplice, esprime un illuminante insegnamento su come Dio guarda agli uomini che popolano il pianeta, e risponde a un interrogativo che spesso si sente ripetere. Perché Dio non interviene a bloccare chi fa del male? Perché non manda subito all'inferno tipi come Hitler, o come chi violenta, uccide, tortura, affama e così via? Risposta: Dio è paziente, è tollerante, è misericordioso; come si dice in altre parti della Scrittura, Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Egli dà tempo (e richiami) a tutti, perché cambino vita; è come il padre di quell'altra celebre parabola, in ansiosa attesa che il figlio prodigo torni da lui. Certo, se malgrado la pazienza e le tante sollecitazioni un uomo persiste sino alla fine nel suo rifiuto, Dio rispetta la libertà che lui stesso gli ha donato e non lo costringe a stare con lui. Sarà per sempre senza di lui: e questo è propriamente l'inferno, che l'immaginario popolare ha riempito di fiamme e diavoli neri col forcone, mentre in realtà è semplicemente (ma terribilmente!) la condizione di una vita per sempre priva dell'unica vera ragione per viverla.

Dio è paziente: mille esempi lo dimostrano, e nel contempo rendono evidente che è meglio così. Ricordiamo solo il caso di Paolo, l'accanito persecutore dei cristiani diventato fervente apostolo. Ragionando come pretendono alcuni, all'uomo che andava a Damasco ad arrestare i suoi amici Gesù avrebbe dovuto mandare un accidente, non l'illuminazione; ma se l'avesse fatto avrebbe privato il mondo del bene immenso portato dalla conversione del persecutore. E poi, riflettiamo: se Dio cominciasse a punire i peccatori, a che punto si dovrebbe fermare? Se colpisse chi manda a morte sei milioni di uomini, perché non anche uno solo? I comandamenti sono dieci, davanti a lui tutti della stessa importanza: quale uomo può affermare di non averne mai violato neppure uno? "Se tu guardi le colpe, Signore" recita il salmo 129, "Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono...".

Il perdono, la pazienza, la misericordia: questo è lo stile di Gesù, che in croce ha perdonato chi ce l'aveva inchiodato, e ha perdonato Pietro che l'aveva rinnegato tre volte, e avrebbe perdonato anche Giuda, se si fosse pentito. E' lo stile di Gesù, riflesso di quello del Padre suo, e modello per noi. Quante volte, gli chiese un giorno Pietro, devo perdonare chi mi fa del male? Sette volte? E gli pareva che sette fosse un numero generoso; chissà lo stupore nel sentirsi rispondere: Non sette, ma settanta volte sette. Cioè, sempre. E quando insegnò a pregare, Gesù invitò a chiedere al Padre nostro: "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Se, nei confronti di chi riteniamo ci abbia fatto torto, non siamo disposti a perdonare ma coltiviamo pensieri di vendetta o semplicemente pretendiamo giustizia, che sarà di noi se Dio farà altrettanto con noi?

Omelia di mons. Roberto Brunelli

 

Avvertire la brezza

Fratelli -ci dice oggi Paolo- lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: non sappiamo infatti come pregare. Lungi dal voler scoraggiare la nostra vita di preghiera, questa constatazione di Paolo intende provocarci a scoprirne lo spessore autentico.

Va detto innanzitutto che la nostra incapacità di pregare non è vera solo all'inizio della vita di preghiera ma lo diventa sempre più a misura che ci inoltriamo in essa. La preghiera non è mai conquistata una volta per tutte, ma è una sfida continua. Proprio perché consapevoli della loro incapacità di pregare, i discepoli si rivolsero a Gesù chiedendogli: Signore, insegnaci a pregare. E sappiamo che Gesù rispose loro con il Padre Nostro.

L'insegnamento che il Padre Nostro contiene riguardo alla vita di preghiera appare solo alla luce del seguito della frase di Paolo che abbiamo citato all'inizio, nella quale afferma che è importante accettare che non sappiamo pregare perché è solo così che impariamo a lasciare che sia lo Spirito stesso a intercedere per noi - e in noi- con gemiti inesprimibili. Questo stesso Spirito del quale altrove egli afferma: Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà, Padre». Possiamo dire il Padre Nostro con verità solo in sintonia con lo Spirito che nel nostro cuore grida: Padre. Solo lo Spirito può invocare il Padre perché solo lui - come dice ancora Paolo - scruta le profondità di Dio, conosce i desideri di Dio. L'opera dello Spirito nei nostri cuori è proprio quella di sintonizzare progressivamente i nostri desideri con quelli di Dio. Quando preghiamo, siamo inseriti nella vita di Dio: lo Spirito grida nel nostro cuore: Abbà, Padre, e il Padre vede sul nostro volto il volto del Figlio.

Pregare è dunque prima di tutto un atto di umiltà: consiste nell'accettare la nostra incapacità e la nostra debolezza, nello scoprire la presenza dello Spirito nel nostro cuore e nel sintonizzarci con essa.

In una pagina molto suggestiva dell'Antico Testamento, Elia si reca su una montagna per incontrare il Signore, ma non lo riconosce immediatamente. Pensa in un primo tempo che il egli si manifesti nel tuono, nei fulmini e nel fuoco, ma capisce progressivamente che la sua presenza va cercata altrove. E di fatti è solo quando avverte il mormorio di una brezza leggera che Elia si prostra, perché le caratteristiche autentiche della presenza e dell'azione del Signore nelle nostre vite sono la delicatezza, la discrezione, la pazienza, la presenza silenziosa.

L'immagine della brezza ci offre un insegnamento importante riguardo a ciò che possiamo fare per entrare in preghiera e dimorarvi. È un'esperienza che possiamo fare tutti quando ci troviamo su una spiaggia in riva al mare. Finché siamo alle prese con altre cose, discutiamo, svolgiamo attività, ascoltiamo musica non avvertiamo nulla. Solo se ci troviamo a passeggiare da soli, in silenzio, presenti a quello che ci circonda, avvertiamo la brezza, non solo con le nostre orecchie, ma con tutto il nostro corpo.

La stessa cosa vale per il soffio dello Spirito che attraversa i nostri cuori, per il suo gemito ineffabile, per la sua costante intercessione. Quella dello Spirito è una presenza continua in noi, ma è così discreta che, come per il mormorio di una brezza leggera, possiamo percepirla solo nei momenti di raccoglimento e di silenzio.

I nostri tentativi di pregare nella vita quotidiana spesso falliscono perché non ci ritagliamo degli spazi di silenzio veri, anche brevi, nei quali davvero ci mettiamo in ascolto, ci apriamo alla presenza di Dio in noi e intorno a noi. Ecco perché ci è necessario non stancarci mai di continuare a chiedere al Signore, come lo fecero i discepoli, di insegnarci a pregare, cioè di farci scoprire la presenza dello Spirito nel nostro cuore. Solo allora le parole del Padre Nostro acquisteranno sapore e ne gusteremo il senso. Diremo Padre sentendo Dio davvero come Padre perché saremo all'unisono con lo Spirito che lo invoca come tale nei nostri cuori. Ogni volta che pregheremo ci lasceremo prendere per mano dallo Spirito. Visto che noi non sappiamo pregare lasceremo pregare lui, ci lasceremo condurre da lui nelle profondità di Dio, nel silenzio di Dio, nei desideri di Dio. Ci farà desiderare quello che desidera lo Spirito: che il nome del Padre sia santificato, che venga il suo regno, che la sua volontà di salvezza si compia nelle nostre vite. Ci aprirà alla fiducia nel farci attendere dal Padre il pane quotidiano e poi soprattutto ci farà accedere al perdono autentico, alla pace e alla serenità nelle nostre relazioni. Scioglierà tutti i nodi di ansia, di collera, di invidia e tutte le paure che ci tengono prigionieri. Una vita di preghiera, anche modesta, anche con spazi piccoli, ma vissuti con sincerità, ci introduce nella pace del Signore. Vale la pena allora di chiedergli questa grazia: Signore, insegnaci a pregare!

Omelia di dom Luigi Gioia

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XVI Domenica del Tempo Ordinario (anno A) 23 luglio 2017

tratto da www.lachiesa.it