2 luglio 2017 - XIII Domenica del T.O.: la legge dell'amore in un bicchiere d'acqua
News del 02/07/2017 Torna all'elenco delle news
Un Dio che pretende di essere amato più di padre e madre, più di figli e fratelli, che sembra andare contro le leggi del cuore. Ma la fede per essere autentica deve conservare un nucleo sovversivo e scandaloso, il «morso del più» (Luigi Ciotti), un andare controcorrente e oltre rispetto alla logica umana.
Non è degno di me. Per tre volte rimbalza dalla pagina questa affermazione dura del Vangelo. Ma chi è degno del Signore? Nessuno, perché il suo è amore incondizionato, amore che anticipa, senza clausole. Un amore così non si merita, si accoglie.
Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà! Perdere la vita per causa mia non significa affrontare il martirio. Una vita si perde come si spende un tesoro: investendola, spendendola per una causa grande. Il vero dramma per ogni persona umana è non avere niente, non avere nessuno per cui valga la pena mettere in gioco o spendere la propria vita.
Chi avrà perduto, troverà. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri, come la donna di Sunem della Prima Lettura, che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. E la capacità di amare di più.
A noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, dall'impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato anche solo un bicchiere d'acqua fresca, non perderà la sua ricompensa.
Il dare tutta la vita o anche solo una piccola cosa, la croce e il bicchiere d'acqua sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po', tutto, perché nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Non c'è amore più grande che dare la vita!
Un bicchiere d'acqua, dice Gesù, un gesto così piccolo che anche l'ultimo di noi, anche il più povero può permettersi. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell'aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico e fragrante: acqua fresca.
Acqua fresca deve essere, vale a dire l'acqua buona per la grande calura, l'acqua attenta alla sete dell'altro, procurata con cura, l'acqua migliore che hai, quasi un'acqua affettuosa con dentro l'eco del cuore.
Dare la vita, dare un bicchiere d'acqua fresca, ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Un bicchiere d'acqua fresca se dato con tutto il cuore ha dentro la Croce. Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d'acqua.
Nulla è troppo piccolo per il Signore, perché ogni gesto compiuto con tutto il cuore ci avvicina all'assoluto di Dio.
Amare nel Vangelo non equivale ad emozionarsi, a tremare o trepidare per una creatura, ma si traduce sempre con un altro verbo molto semplice, molto concreto, un verbo fattivo, di mani, il verbo dare.
Omelia di padre Ermes Ronchi
Non subire più
L'elemento più affascinante del messaggio cristiano è la sua promessa di novità. Non solo annuncia cieli nuovi e terra nuova, ma un rinnovamento del nostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. Grazie a Cristo, come dice Paolo nella seconda lettura di oggi, anche noi possiamo camminare in una vita nuova, e lo ripete ovunque: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
E' inevitabile prima o poi provare stanchezza nelle nostre vite, disperare della nostra capacità di ripartire, diventare consapevoli di quanto difficile sia sottrarsi ai circoli viziosi nei quali ci hanno iscritto la nostra storia, le nostre paure, i nostri fallimenti. Ci sono degli scenari che continuano a ripetersi ed ai quali sembra impossibile scampare: ciclicamente siamo esposti agli stessi litigi, alle stesse impossibilità di perdonare, alle stesse paralisi, agli stessi abusi e non intravediamo nessuna possibilità di spezzare questi meccanismi.
Qui va cercata la nostra croce. Quando parliamo di croce nel cristianesimo, non intendiamo semplicemente la prova o la sofferenza. Non basta che una circostanza, un evento, un aspetto della nostra vita siano dolorosi per poterli considerare una croce. Croce' è solo la prova e la sofferenza che ad un certo punto non temiamo più, non subiamo più stoicamente, ma assumiamo, abbracciamo perché in esse scopriamo possibilità nuove, una presenza nuova, quella dell'Emanuele, del Dio con noi, del Risorto che è ancora con noi, di Cristo. Gesù non ci intima solo di prendere la croce, ma afferma: chi non prende la propria croce e non mi segue non è degno di me. Sofferenza e prova diventano dunque croce solo nell'istante in cui cominciamo a seguire Gesù. Il Vangelo, non solo nel suo messaggio, ma narrativamente consiste in questo: seguire Gesù, aderire a lui, perché lui ci ha chiamati, ci ha guariti, ci ha rialzati e presi per mano e ci guida, si fa il nostro cammino, ci conduce su pascoli erbosi e ad acque tranquille e non ci fa mancare di nulla, specialmente la sua consolazione.
Una luce nuova è così conferita a parole del vangelo che possono sembrarci particolarmente inumane o dure: Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. La vita che siamo invitati a non tenere per noi stessi, a perdere, è quella diventata prigioniera del circolo vizioso e dei meccanismi di ripetizione evocati più in alto. Un paradosso di questi ultimi è che sviluppiamo spesso nei loro confronti una forma di complicità: siamo quasi contenti di fronte al ciclico riprodursi di quel determinato fallimento o di quell'altra prova perché confermano il copione interno che continuiamo a riproporci, legittimano i nostri vittimismi e i nostri risentimenti. Per cambiare mentalità ci vuole non solo forza di volontà, ma una guarigione interiore, una conversione, cioè una morte e una resurrezione.
Al vangelo fa eco Paolo nella seconda lettura precisando in cosa consistano la morte e la vita annunziati da Cristo. Se possiamo camminare in una vita nuova è perché siamo stati battezzati nella morte di Cristo, siamo stati sepolti con lui. Cristo muore di morte vera, è veramente sepolto. Grazie alla conversione, alla fede e al battesimo, siamo guariti dalla morte perché siamo uniti a colui che l'ha vinta una volta per tutte: la morte di cui si parla qui è simbolica, ma non la vita nuova che essa ci conferisce, poiché se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Il paradosso è che ci è chiesto di perdere la nostra vita, di prendere la croce non per morire, ma per non morire più, perché la morte cessi di esercitare il suo potere su di noi, perché possiamo essere liberati da tutti i meccanismi mortiferi che avvelenano le nostre esistenze.
Ed un esempio di questa liberazione è quello suggerito dalla frase iniziale del vangelo: Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me. Chi volesse denunciare il cristianesimo come alienante, disumanizzante, crederebbe di trovarne una prova irrefutabile in questa frase. Potenzialmente, la fede cristiana potrebbe slogare i legami delle famiglie o giustificare forme di pressioni indebite al loro interno. Invece proprio l'apparente durezza di questa frase contiene la chiave per redimere i legami di paternità, di maternità e di filiazione dalle loro inevitabili patologie. Proprio perché così indispensabili alla vita e alla crescita sia fisica che affettiva, i legami familiari sono anche quelli nei quali più insidiosamente si insinuano i meccanismi di morte di cui abbiamo parlato più in alto. Le ferite che condizionano più pesantemente le nostre vite sono spesso proprio quelle, reali o presunte, ricevute nella relazione con i nostri genitori: una madre troppo protettiva o ansiosa, un padre assente o troppo autoritario - ce n'è per tutti. L'amore umano, proprio perché è la cosa più bella, è anche la più fragile.
Il solo modo di guarire queste ferite è quello di perdonarle e la dinamica del perdono richiede che anche il padre, anche la madre, anche il figlio o la figlia ad un certo punto diventino il prossimo, il fratello o la sorella in Cristo, che devo saper accettare nel loro mistero e che devo amare non solo a causa dei legami naturali, ma a causa di Cristo. Lungi dall'indebolire i legami familiari, proprio questo processo li purifica, li rinnova, li rafforza. Tutto quello che è vissuto in unione con Cristo, a causa di lui, diventa vita nuova.
Omelia di don Luigi Gioia
Se metti Gesù al suo posto
Continuano le istruzioni di Gesù ai suoi discepoli circa la missione a loro affidata nel mondo. Si rafforza quel "non abbiate paura" udito domenica scorsa. Infatti, se da un lato il Signore chiarisce subito che al suo discepolo non saranno risparmiati disprezzo e persecuzioni, dall'altro, le parole di oggi garantiscono che ci sarà pur sempre l'esperienza dell'accoglienza in quanto suo accreditato rappresentante (Mt 10,40-42). Notate il legame ontologico ("chi accoglie voi accoglie me") che Gesù crea con il discepolo: a chi, credendo in questo profondo legame, accoglie il suo inviato, è assicurata la risposta grata del Signore. Per tre volte in due versetti è sottolineata la promessa della ricompensa di Dio.
E' sempre molto bello per me sottolineare la bontà con cui Dio ricompensa la fede: quante volte (non si possono contare!) ho toccato con mano la fedeltà del Signore alle sue promesse!
Infine, qualche pensiero sui versetti iniziali (37-39) del vangelo di oggi. Se Gesù parla così non è certo per entrare in concorrenza con l'amore che sentiamo per i nostri cari. E ciononostante le sue parole sono chiarissime. Chi non lo colloca prima degli affetti più cari non è degno di Lui. Che cosa vuol dire? Nella regola di S. Benedetto da Norcia c'è una ricorrente, breve espressione rivolta ai suoi monaci che è la migliore sintesi di questi versetti: "non anteponete nulla all'amore per Cristo". Per il discepolo in cammino queste parole non suonano né strane né antagoniste degli altri amori umani. Non anteporre niente all'amore di Cristo non fa male agli altri amori. E' piuttosto la direzione più autentica e saggia per far crescere bene ogni amore e per comprendere il significato della propria e dell'altrui esistenza. Alcune settimane fa insieme ad alcuni amici ho incontrato un sacerdote che conobbe molto da vicino Natuzza Evolo, la mistica di Paravati (Vibo Valentia) in Calabria. Naturalmente, abbiamo ascoltato molte cose riferite ai fenomeni soprannaturali che accadevano intorno alla sua persona. Ma una delle cose che mi ha colpito di più di quanto udito da quel confratello sacerdote, è stata la risposta che un giorno lei diede alla domanda di uno dei suoi figli ormai adulto. Natuzza infatti era una donna sposata. Questo figlio si rendeva conto della grande carità che muoveva la mamma ad accogliere tutti, soprattutto i più poveri e sofferenti, in casa sua. Carità che sperimentavano a un punto tale che tutti la chiamavano "mamma Natuzza". Allora un giorno questo figlio, sapendo bene da quanti fosse così chiamata e considerata, fece questa domanda a sua madre: "molti ti chiamano mamma, ma io vorrei sapere se, per te, loro sono come tuoi figli, o meglio: per te, io sono come loro?". La risposta di Natuzza fu sicura e decisa: "sì, non c'è alcuna differenza tra te e loro: siete tutti miei figli". Così è il cuore di chi ha messo nella sua vita Gesù al suo posto, cioè il primo. Si trova a vivere una vita e un ordine nuovo che fa bello tutto ciò che lo circonda, dando il suo proprio significato ad ogni amore umano. Perché per noi cristiani non c'è amore che, se vuol evitare di fare danni, non debba orientarsi e sottoporsi a quello di Gesù Cristo. Diversamente, ecco i multiformi problemi di oggi in tante relazioni umane, per dirla morbidamente. Mettiamo dunque Gesù al suo posto, come Dora e come Natuzza. Non ce ne pentiremo.
Omelia di don Giacomo Falco Brini
Liturgia della Parola della XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 2 luglio 2017
tratto da www.lachiesa.it