6 novembre 2016 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario: È l'amore che vince la morte

News del 05/11/2016 Torna all'elenco delle news

La storiella paradossale di una donna, sette volte ve­dova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l'hanno sposata sarà moglie quella donna nella vita eterna?

Per loro la sola eternità possibile sta nella generazione di figli, nella discenden­za. Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigio­nare in questioni di corto respiro, rompe l'accerchia­mento, dilata l'orizzonte e «rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell'uomo ma l'eternità stes­sa di Dio» (M. Marcolini).

Quelli che risorgono non prendono moglie né marito.

Fac­ciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affet­ti. Quelli che risorgono non si sposano, ma danno e ri­cevono amore ancora, finalmente capaci di amare bene, per sempre. Perché amare è la pienezza dell'uomo e di Dio. Perché ciò che nel mondo è valore non sarà mai di­strutto. Ogni amore vero si aggiungerà agli altri nostri a­mori, senza gelosie e senza esclusioni, portando non li­miti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità.

Saranno come angeli.

Gesù adopera l'immagine degli an­geli per indicare l'accesso ad una realtà di faccia a faccia con Dio, non per asserire che gli uomini diventeranno an­geli, creature incorporee e asessuate. No, perché la ri­surrezione della carne rimane un tema cruciale della no­stra fede, il Risorto dirà: non sono uno spirito, un fanta­sma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,36). La risurrezione non cancella il corpo, non cancella l'u­manità, non cancella gli affetti. Dio non fa morire nulla dell'uomo. Lo trasforma. L'eternità non è durata, ma in­tensità; non è pallida ripetizione infinita, ma scoperta «di ciò che occhio non vide mai, né orecchio udì mai, né mai era entrato in cuore d'uomo...» (1Cor 2,9).

Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi.

In questo «di» ripetuto 5 volte è racchiuso il motivo ultimo della risurrezione, il segre­to dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reci­proco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appar­tengono di Dio. Così totale è il legame, che il Signore fa sì che il nome di quanti ama diventi parte del suo stesso nome. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici par­te integrante di sé. Legando la sua eternità alla nostra, mo­stra che ciò che vince la morte non è la vita, ma l'amore. Il Dio di Isacco, di Abramo, di Giacobbe, il Dio che è mio e tuo, vive solo se Isacco e Abramo sono vivi, solo se tu e io vivremo. La nostra risurrezione soltanto farà di Dio il Padre per sempre.

Omelia di padre Ermes Ronchi

 

Tutti vivono per Dio!

Nella domenica XXXII del tempo ordinario, la Liturgia, omettendo importanti brani che leggiamo in altri momenti dell'anno, ci colloca, con Gesù, al termine del viaggio verso Gerusalemme, all'interno del Tempio, partecipi di una disputa con i Sadducei (Lc.20,27-38).

È l'unica volta che si parla dei Sadducei nel Vangelo: composto in prevalenza da ricche famiglie sacerdotali e da nobili laici, il partito dei Sadducei (che si richiamava a Sadoc, i cui discendenti erano gli unici riconosciuti come sacerdoti legittimi: Ez.44,15) costituiva il vertice sacerdotale e politico di Israele. Conservatori in materia religiosa, ammettevano solamente l'autorità del Pentateuco e rifiutavano sia la tradizione orale che le nuove credenze. Poiché i libri di Mosè non parlano di risurrezione (solo dal sec.II a.C. in Israele si è cominciato a parlarne), i Sadducei erano in posizione agnostica: da qui nasce la disputa con Gesù. Con la guerra giudaica (66-70 d.C.) assieme al Tempio, anche i Sadducei sono scomparsi dalla storia d'Israele.

Scrive, dunque Luca: "Si avvicinarono a lui alcuni Sadducei, che negano che ci sia la risurrezione, e gli posero questa domanda: Maestro, Mosè ci ha prescritto...". Il caso sottoposto a Gesù fa riferimento alla legge del levirato (Deut.25,5-10) secondo la quale il fratello di un uomo che muore senza avere figli, deve sposarne la moglie per assicurargli la discendenza. La situazione presentata è quella di una vedova che non ha figli, sposata successivamente da sette fratelli. La domanda è: "Questa donna, alla risurrezione, di chi sarà moglie, dal momento che in sette l'hanno avuta per moglie?"

Evidentemente la questione posta in questi termini, ironizza su una concezione materialista della risurrezione, che i Farisei diffondevano, concepita come un ritorno migliorato alla vita terrena.

La risposta di Gesù, certamente sviluppata da Luca, importante anche per noi, per il senso della nostra esitenza, per le domande fondamentali che noi pure continuiamo a porci, è frutto della novità dell'esperienza personale di Gesù e della sua risurrezione e segna un punto di novità in rapporto alla concezione materialista dei Farisei.

Anzitutto, Gesù parla di "figli di questo mondo" e di "quelli che sono ritenuti degni di partecipare all'altro mondo", affermando con chiarezza che il mondo della risurrezione non è la riproduzione del mondo terrestre: l'altro mondo è un "mondo altro", inimmaginabile e indicibile. Il matrimonio fa parte di questo mondo: "i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito" perché l'umanità possa sopravvivere, mentre "quelli degni di far parte del mondo altro" non hanno più bisogno di generare figli, perché l'umanità ha raggiunto l'immortalità.

Scrive Luca: "Essi infatti non possono più morire, perché sono simili agli angeli: sono figli di Dio, perché sono figli della risurrezione". Avvertiamo qui, tutta la fatica di Luca, discepolo di Paolo, di esprimere con parole normali (della cultura giudaica e della cultura greca) tutta l'indicibile novità della vita della risurrezione, a cui partecipano coloro che "sono ritenuti degni di farne parte". Far parte del mondo altro è puro dono di Dio: dire che coloro che ne fanno parte sono "simili agli angeli" significa che sono ormai dalla parte di Dio, rinati ad una condizione della quale Dio solo conosce il segreto.

"Infatti, essi, non possono più morire": Luca spiega questa affermazione con un commento che deriva dalla sua fede cristiana. Coloro che fanno parte del mondo nuovo, non sono soltanto uguali agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella sua vita, grazie alla risurrezione che è il grande dono di Dio all'uomo. Evidentemente Luca parla dell'immortalità nell'ottica della fede cristiana: il legame tra risurrezione e filiazione divina è applicata a Cristo in At.13,33 ed è ormai un dato della fede cristiana in Rom.1,4: è un dono offerto a tutti gli uomini che sono "in Cristo".

Parlando di "figli della risurrezione", Luca previene il fraintendimento possibile in ambiente ellenistico (e anche per noi) che identifica l'immortalità con la spiritualità dell'anima: i "figli della risurrezione" vivono in Dio una vita nuova, che non muore, una vita pienamente umana, non riconducibile all'immortalità dell'anima spirituale.

Gesù, infatti, richiamandosi a Mosè, la cui autorità anche i Sadducei riconoscevano, inizia una riflessione nuova, meravigliosa, che dà fondamento alla sua concezione di immortalità e ne fa comprendere la bellezza e la ricchezza.

Gesù si riporta all'esperienza di Mosè, al suo incontro con Dio, all'esperienza fondante della fede di Israele, che egli porta al vertice. "Che i morti risorgano anche Mosè lo ha svelato con il roveto dicendo il Signore Dio di Abramo, e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe...": così scrive Luca, in una frase densa, quasi intraducibile. L'incontro imprevisto di Dio, che ha cambiato la vita a Mosè, nel simbolo del roveto che arde e non consuma, contiene tutta l'intensità della relazione di Dio con l'uomo: Dio forza che arde e non consuma, Dio vita infinita che non uccide ma fa vivere la sua creatura, Dio più intimo di quanto non sia l'uomo a se stesso, Dio che non violenta ma libera l'uomo, Dio Amore che si incarna nella fragilità dell'uomo. Dio, l' "Io sono" che risveglia il "tu" dell'uomo: Dio che chiama per nome Mosè perché cominci a conoscere se stesso e a conoscere il mondo. Dio Colui che è con..., Dio dell'alleanza, della relazione personale: Dio di Abramo "e" Dio di Isacco "e" di Giacobbe... "e" di ogni persona umana: al vertice, relazione piena, filiale con Gesù. Dio l'Amore-fedele che discende fino alla oscurità della morte: l'Amore che diventa sempre più grande quanto più discende. Dio-Amore fedele che non può abbandonare l'uomo che ama nel momento dell'estrema debolezza della morte. Dio che esprime la potenza infinita dell'Amore risvegliando l'uomo che muore per una vita nuova che non muore più.

Gesù ha vissuto questa esperienza di relazione filiale con il Padre, sino all'estrema oscurità della Croce riempita dall'Amore silenzioso di Dio, come nuovo roveto che arde e non consuma: Dio è l'Amore che si annienta nella carne per risorgere nella pienezza della vita. Tutto è l'Amore che muore e risorge: tutto vive per l'Amore. "Dio non è dei morti, ma dei vivi: tutti infatti vivono per Lui": tutti vivono per l'Amore.

Gesù, con la sua esperienza di uomo che muore e che risorge, come Figlio abbandonato all'Amore del Padre, è la luce che illumina il senso dell'esistenza umana, nella sua oscurità fragile ma avvolta dall'Amore di Dio che accoglie e genera ad una vita piena.

Per Gesù, l'immortalità a cui l'uomo è chiamato è il dono dell'Amore fedele di Dio di cui rende partecipe la sua creatura fragile.

L'Amore è il senso di tutto. La risurrezione di Gesù riempie di senso la nostra oscurità e fa nuovo tutto: se la nostra logica è di pensare che l'esistenza parte dalla nascita e va verso la morte, Gesù ci invita a partire dalla morte come nascita all'Amore per interpretare il "già" della nostra esistenza umana. Tutto ha senso se, partendo dall'Amore che ha risuscitato Gesù, a cui tutti siamo chiamati, sappiamo già vivere adesso come figli della risurrezione, come figli dell'Amore: l'Amore non muore e non morirà. In modo nuovo, misterioso nel senso del mistero dell'Amore infinito, vivremo in pienezza, ciò che già cominciamo a gustare: non l'immortalità dell'anima, ma la bellezza di una relazione d'Amore, come uomini e donne, nella quale crediamo già presente il roveto che arde e non consumerà mai.

Omelia di mons. Gianfranco Poma

 

Via i criteri mondani dalla vita piena

Nel mondo giudaico vigeva la cosiddetta "Legge del Levirato (ebraico Levir = cognato) per la quale, quando una donna restava vedova senza aver avuto figli, era tenuta a sposare il fratello del coniuge estinto per garantire la continuità nella discendenza e pacificare ogni situazione relativa all'eredità (Cfr Dt 25, 5-10). Anche il fratello del defunto era tenuto ad accettare che la vedova diventasse sua consorte e in caso di rifiuto veniva sottoposto a un rito punitivo alla presenza dei sacerdoti. Il primogenito che scaturiva dalla nuova unione sponsale prendeva il nome del trapassato.

Su questa normativa fanno leva i Sadducei, movimento teologico religioso che nega la risurrezione dei morti e la vita eterna: vogliono tendere un tranello a Gesù per coglierlo in fallo e gli pongono una questione assai spinosa e delicata. Gli pongono un caso deprecabile e inverosimile, ai limiti dell'assurdo, che solamente in occasioni straordinarie si sarebbe potuto verificare: se una donna è stata sposa di sette fratelli e tutti quanti sono morti senza lasciarle prole, al momento della resurrezione finale questa donna di chi sarà moglie?" E' appunto inverosimile e fantasioso che possa verificarsi un caso di matrimonio con ben sette fratelli e che tutti quanti muoiano senza lasciarle figli. Impossibile a pensarsi. Eppure i sottili ragionatori miscredenti nella vita eterna lo espongono a Gesù per avere argomento sul quale poter obiettare e porre ostacoli e difficoltà.

Ma ciò che è ancora più assurdo è che questi Sadducei tendano ad equiparare i parametri degli sposalizi terreni con la nuova dimensione di gloria nella quale ci si troverà al momento della risurrezione. Non appena ciascuno di noi si troverà nella nuova dimensione di gloria definitiva di pace e di comunione piena con il Signore che è il paradiso, la perfezione sarà talmente totalizzante che scompariranno le barriere e le differenziazioni della vita presente e decaderanno tutti i limiti spazio temporali. Nel paradiso ci attende la comunione piena con tutti coloro che abbiamo conosciuto in questa vita e con tutti quanti gli altri che non avremo conosciuto, i quali familiarizzeranno immediatamente con noi nella forza dell'amore riconciliante di Dio Padre. Saremo tutti quanti un Uno. A Karl Barth venne chiesto se in paradiso avremmo rivisto i nostri cari, ed egli rispose: "Non soltanto i nostri cari..." Nella pienezza della vita tutto sarà all'insegna dell'amore e della perfezione, per cui non vi saranno le differenziazioni che adesso ci dividono. Pertanto non si potrà pretendere che in paradiso troveremo le stesse differenziazioni che vigono in questo mondo e che intercorrono nella nostra società e nei nostri rapporti. E va da sé che le suddette diversificazioni e barriere di divisione non potranno sussistere neppure al momento della resurrezione finale. Anche in quel determinato istante persisteranno i parametri propriamente paradisiaci, per cui non vi saranno limitazione di cultura, di etnia, nazionalità o parentela. La vita eterna non si misura con il metro della vita umana terrena.

Il problema della conciliabilità fra la resurrezione e la prescrizione del Levirato di conseguenza non si pone, perché al momento finale incontreremo un mondo rinnovato e scevro dalle intemperanze di cui il presente storico è caratterizzato, vivremo una dimensione che avrà del nuovo, dell'universalmente valido e del meraviglioso per la quale ci si dischiuderanno "cieli nuovi e terra nuova" (2 Pt 3, 13) che richiamano le promesse di Isaia e che delineano una situazione di benessere nella piena comunione con Dio che noi vedremo faccia a faccia e con cui instaureremo una comunione e una familiarità illimitata che sarà la nostra salvezza. Quindi non sussisteranno più le differenziazioni sociali che adesso ci distinguono e ci separano, non avranno più motivo di esistere legami di parentela e situazioni di comunicazione e di relazioni legali, ma tutti quanti saremo uno e ci riconosceremo gli uni gli altri, e anche coloro con i quali adesso non coltiviamo alcun contatto saranno a noi vicini e familiari. Ragion per cui nessuno porrà il problema del Levirato o di altra legge scritta e neppure vi saranno normative o legiferazioni orali o di altro stampo: al massimo saremo tutti fratelli.

Nella nuova terra scompariranno i criteri di divisione e di sezionamento che caratterizzano la nostra vita attuale; saranno superate tutte le barriere fra uomo e uomo e non avremo necessità di distinguerci neppure nei gradi di parentela e di consanguineità: davanti alla gloria di Dio tutti saremo simili a lui e fra i noi e ci riconosceremo immediatamente non più come marito, moglie, cognato, cugino, amico ecc ma semplicemente come figli di Dio.

Cosicché la risposta di Gesù oltre che a lasciare interdetti i miscredenti Sadducei, ci ragguaglia un'altra volta sull'amore di Dio che supera tutti i limiti perché prevarica le limitazioni che ci siamo costruiti, elude tutte le barriere perché pone come unica barriera la possibilità dell'odio che si oppone all'amore e alla gioia piena e allo stesso tempo ci interpella perché anche il nostro presente possa svolgersi tutto in direzione della gloria finale della resurrezione.

Certo, come illustra a suo modo il brano odierno tratto dal libro dei Maccabei, la resurrezione finale non necessariamente avverrà per la vita: coloro che avranno operato il male risusciteranno infatti per un giudizio di condanna e agli empi spetterà la giusta retribuzione per aver vissuto contro Dio e lontani dalle aspettative dell'Amore, ma nella volontà di amore salvifico divino si pone sempre l'obiettivo della salvezza e della gioia infinita per la quale la nostra speranza attende di diventare certezza e procura intanto di incamminarsi verso il medesimo traguardo di gloria.

Omelia di padre Gian Franco Scarpitta

 

Liturgia e Liturgia della Parola della XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) 6 novembre 2016

tratto da www.lachiesa.it