9 febbraio 2014 - V Domenica del Tempo Ordinario: così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, la luce della testimonianza
News del 08/02/2014 Torna all'elenco delle news
Il piccolo brano che la Liturgia ci presenta (Matt.5,13-16) segue immediatamente la proclamazione delle Beatitudini, e completando l'introduzione al discorso della montagna, delinea con precisione l'identità dei discepoli di Gesù. La preoccupazione di Matteo, all'inizio del suo Vangelo, è proprio quella di esprimere con chiarezza l'identità dei seguaci di Gesù in rapporto all'ebraismo, nel momento nel quale la comunità cristiana si sta immergendo nel grande mondo: essa non rinnega la sua radice ebraica, ma vedendone in Gesù il "compimento", si sente legittimata all'apertura universale. E' evidente quanto sia importante questa pagina per noi, oggi, che sentiamo l'urgenza dell'annuncio cristiano al nostro mondo globalizzato, e che, proprio per questo sentiamo la necessità di chiarire prima di tutto a noi stessi, in che cosa consista l'identità cristiana. Il Vangelo di Matteo si chiude con l'invito rivolto da Gesù ai suoi discepoli convocati "sul monte che egli aveva loro indicato": "Andate e fate discepoli tutti i popoli...Ed ecco, io sono con voi fino alla fine del mondo" (Matt.28,19). La Chiesa oggi più che mai sente l'urgenza di rispondere all'invito del suo Signore, è cosciente del fatto che la dimensione missionaria è essenziale per la propria esistenza, ma proprio per questo sente di dover rivivere l'esperienza degli inizi: solo con una chiara coscienza della propria identità può presentarsi al mondo intero come portatrice del messaggio di salvezza che realizzi il bisogno più profondo dell'uomo moderno. E del cammino di ricerca della propria identità che la Chiesa oggi è chiamata a percorrere, fa parte la presa di coscienza di quanto l'esperienza cristiana sia radicata nell'esperienza del popolo ebraico scelto da Dio per essere segno e strumento della sua alleanza con il mondo intero e di quanto la novità di Gesù e quindi la novità cristiana non si possa comprendere se non come il "compimento" della Torah di Israele: il brano di Matteo che la Liturgia ci fa leggere in questa domenica è particolarmente illuminante per la Chiesa, oggi.
Il discorso della montagna è rivolto a coloro che "avendo lasciato tutto, hanno seguito Gesù", hanno trovato nell'incontro con lui, nella relazione con lui, il senso pieno della loro esistenza. "Seguire Gesù" richiede un atto di decisione libera che genera una vita nuova nella quale la relazione con lui si rinnova continuamente producendo frutti coerenti, opere e atti concreti. Gesù è il Figlio che vive totalmente della vita che il Padre gli dona: solo la sua esperienza filiale gli dà il senso pieno della sua esistenza. Egli può essere il povero, può piangere, essere mite, misericordioso, perché sperimenta la consolazione del Padre: chi lascia tutto, per seguire lui, non segue semplicemente un maestro di morale, ma entra con lui nell'esperienza dell'amore del Padre. Chi lo segue e gusta con lui l'esperienza di Figlio, può percepire la verità nuova della vita beata di cui egli apre gli orizzonti. E cominciamo a comprendere in che cosa consista l'identità cristiana: non si tratta di essere più impegnati degli altri per una vita morale più alta, si tratta di una esperienza di relazione con Colui che dà un senso nuovo alla vita e rende capace di viverla. Senza questa esperienza, l'uomo rimane nella sua deludente velleitaria fragilità che genera radicale infelicità sotto gli aspetti più diversi: a chi ha il coraggio di lasciare tutto e di seguirlo, Gesù offre la possibilità di gustare ciò che senza di lui, solo con le proprie forze rischia di cercare invano.
I discepoli di Gesù fanno della relazione con lui la condizione costante della loro vita, non dimenticano la sua parola: "uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli" (Matt.23,8) e l'invito finale: "fate discepoli tutti i popoli". Ai suoi discepoli, che rimangono costantemente tali, che gustano la relazione con lui e attraverso lui, con il Padre e con i fratelli, Gesù rivolge le parole che oggi leggiamo: "Voi siete il sale della terra...voi siete la luce del mondo..." Il sale è indispensabile per l'uomo: serve ad evitare la putrefazione, a condire, a dare sapore, è simbolo della sapienza, di ciò che dà senso all'esistenza. La luce libera dalla notte, illumina il cammino, rende visibile ciò che senza la luce resterebbe nascosto.
Continua così e si precisa la descrizione dell'identità cristiana. E' Gesù che parla: l'identità cristiana non è autoreferenziale. Non sono i discepoli che dicono: "noi siamo il sale della terra". L'identità cristiana dipende dalla relazione continuamente mantenuta con lui, che chiama, che chiede di abbandonare tutto per poter ricevere tutto da lui. Il sale della terra è lui, la luce del mondo è lui: i discepoli lo sono solo rimanendo con lui. "Voi siete il sale della terra..." L'aspetto più caratteristico dell'identità cristiana sta nel fatto che Gesù non dice: voi "dovete" essere ma voi "siete". Il rischio che noi corriamo più frequentemente è proprio questo slittare dalla proclamazione che Gesù fa di una realtà che ci è donata, ad un imperativo affidato a ciò che noi facciamo: questo genera in noi l'affanno delle nostre opere con cui pensiamo di cambiare il mondo, di creare il mondo migliore, di render gloria a Dio, mentre subdolamente cerchiamo soltanto la nostra gloria. "Voi siete il sale della terra... la luce del mondo": Gesù vuole che noi rimaniamo sempre fratelli, discepoli dell'unico Maestro, figli dell'unico Padre, condotti dall'unica Guida. Gesù vuole che "noi", la sua Chiesa rimaniamo sempre un "voi" a cui Lui parla. L'essere sale e luce non è l'esito dei nostri sforzi, dei nostri progetti, misurabile dai risultati che noi ci siamo prefissi di ottenere, ma è la condizione nuova della nostra esistenza quando ci siamo lasciati ricreare dalla Parola creatrice di Gesù, operante in noi. Rimanere discepoli di Gesù significa sperimentare con lui la tenerezza infinita del Padre che ci rende partecipi della vita che egli comunica al Figlio, gustare l'amore senza limiti del Figlio che per noi ha attraversato l'oscurità della morte, sperimentare la grazia sovrabbondante dello Spirito che muove il profondo del nostro cuore e significa poter amare il mondo come Gesù lo ama solo perché egli ha trasformato il nostro cuore nel suo cuore di Figlio.
L'identità cristiana è tutta ricevuta dal Cristo e diventa tanto più vera quanto più sa spogliarsi di se stessa per essere piena di Lui. Il sale dà sapore sciogliendosi e la luce deve illuminare la casa: l'identità cristiana è quella di Cristo che deve morire per generare nuova vita. I discepoli di Cristo sono chiamati a seguire lui che come il seme muore per generare vita nuova.
La comunità di Matteo che sta cercando la propria identità per immergersi nel grande mondo sa che la trova soltanto non con il progetto di creare un altro mondo, ma, vivendo con Cristo e di Cristo, entrando nel cuore del mondo, della storia sempre nuova, morendo con lui, per svelare al mondo che solo il suo amore dà sapore e luce ad una realtà che da sola, rischia di continuare a vagare nella tenebra.
Omelia di mons. Gianfranco Poma
Noi del Vangelo, gente che accarezza la vita
Gesù ha appena finito di proclamare il vertice del suo messaggio, le beatitudini, e aggiunge, rivolto ai suoi discepoli e a noi: se vivete questo, voi siete «sale e luce della terra».
Una affermazione che ci sorprende: che Dio sia luce del mondo lo abbiamo sentito, il Vangelo di Giovanni l'ha ripetuto, ci crediamo; ma sentire - e credere - che anche l'uomo è luce, che lo siamo anch'io e tu, con tutti i nostri limiti e le nostre ombre, questo è sorprendente.
E non si tratta di una esortazione di Gesù: siate, sforzatevi di diventare luce, ma: sappiate che lo siete già. La candela non deve sforzarsi, se è accesa, di far luce, è la sua natura, così voi. La luce è il dono naturale del discepolo ha respirato Dio. Incredibile la stima, la fiducia negli uomini che Gesù comunica, la speranza che ripone in noi. E ci incoraggia a prenderne coscienza: non fermarti alla superficie di te stesso, al ruvido dell'argilla, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore, scendi nel tuo centro e là troverai una lucerna accesa, una manciata di sale. Voi che vivete secondo il Vangelo siete «una manciata di luce gettata in faccia al mondo» (Gigi Verdi). E lo siete non con la dottrina o le parole, ma con le opere: risplenda la vostra luce nelle vostre opere buone.
Tu puoi compiere opere di luce! E sono quelle dei miti, dei puri, dei giusti, dei poveri, le opere alternative alle scelte del mondo, la differenza evangelica offerta alla fioritura della vita. Quando tu segui come unica regola di vita l'amore, allora sei Luce e Sale per chi ti incontra. Quando due sulla terra si amano diventano luce nel buio, lampada ai passi di molti. In qualsiasi luogo dove ci si vuol bene viene sparso il sale che dà sapore buono alla vita.
Isaia suggerisce la strada perché la luce sia posta sul candelabro e non sotto il moggio. Ed è tutto un incalzare di verbi: Spezza il tuo pane, Introduci in casa lo straniero, vesti chi è nudo, non distogliere gli occhi dalla tua gente. Allora la tua luce sorgerà come l'aurora, la tua ferita si rimarginerà in fretta.
Illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirai. Non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma occupati della terra, della città dell'altro, altrimenti non diventerai mai un uomo o una donna radiosi. Chi guarda solo a se stesso non si illumina mai.
Allora sarai lucerna sul lucerniere, ma secondo le modalità proprie della luce, che non fa rumore e non violenta le cose. Le accarezza e fa emergere il bello che è in loro. Così «noi del Vangelo» siamo gente che ogni giorno accarezza la vita e ne rivela la bellezza nascosta.
Omelia di padre Ermes Ronchi
La luce della testimonianza
Gesù dice ai discepoli che sono sale della terra e luce del mondo. Siamo ancora all'inizio della predicazione evangelica, e senza dubbio i discepoli non possono vantare una esemplare condotta da "uomini delle beatitudini". E tuttavia Gesù insiste: "Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?". In questo interrogativo è nascosta una domanda di responsabilità. Gesù sembra dire: "Non ho altro che voi per l'annuncio del Vangelo", oppure: "Se il vostro comportamento è insipido e senza gusto, non ho altro rimedio per l'annuncio evangelico". È quel che accade se la lucerna accesa viene posta sotto il secchio (a volte, rovesciato, serviva anche da mensola). Anche in questo caso non c'è rimedio, si resta al buio. Tutto ciò non era vero solo allora, lo è altrettanto oggi.
La funzione di essere sale della terra e luce del mondo non deve essere mai disattesa. Ognuno di noi sa bene, di fronte a queste parole, di essere una povera persona. Com'è possibile essere sale e luce? Non siamo tutti al di sotto della sufficienza? Ma il Vangelo insiste: "Voi siete il sale della terra". È vero, non lo siamo da noi stessi, ma solo se siamo uniti al vero sale e alla vera luce, Gesù di Nazareth. La luce non viene dalle doti personali.
L'apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto, ricorda di non essersi presentato in mezzo a loro con sublimità di parole: "Io venni in debolezza e con molto timore e trepidazione". Eppure, malgrado la debolezza, il timore e la trepidazione, difende l'onestà del suo ministero: "Ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo e questi crocifisso". La debolezza dell'apostolo non oscura la luce dell'annuncio, non diminuisce la forza della predicazione e della testimonianza. Al contrario, ne è un pilastro, e ne dà la ragione: "Perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana ma sulla sapienza di Dio". In queste parole c'è un profondo senso di liberazione.
I discepoli di Gesù, a differenza di quel che avviene tra gli uomini, non sono condannati a nascondere davanti a Dio la loro debolezza e la loro miseria. Queste non attentano alla potenza di Dio, non la cancellano, semmai la esaltano, consapevoli che "abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi" (2 Cor 4, 7). Il primo a non vergognarsi della nostra debolezza è proprio il Signore; la sua luce non è smorzata dalle nostre tenebre. Non c'è alcun disprezzo per l'uomo da parte del Vangelo; non c'è alcuna antipatia da parte del Signore. Paolo aggiunge: "chi si vanta, si vanti nel Signore"; il nostro vanto non è mai in noi stessi. La grazia di Dio rifulge nella nostra debolezza; non ce ne possiamo appropriare, ci supera sempre e non ci abbandona. Aggiunge il Vangelo: "così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, che vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli". È l'invito che il Signore fa a noi perché diventiamo operatori del Vangelo. E il profeta spiega cosa questo significa: "spezza il tuo pane con l'affamato, introduci in casa i senza tetto, vesti chi è nudo senza distogliere gli occhi dalla tua gente". È la carità, la luce del Signore. Essa è diretta soprattutto verso i poveri e i deboli, e nello stesso tempo non dimentica chi ci è vicino. Solo "allora – aggiunge il profeta – la tua luce sorgerà come l'aurora... allora brillerà fra le tenebre la tua luce".
Omelia di mons. Vincenzo Paglia
Liturgia e Liturgia della Parola della V Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) 9 febbraio 2014